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- Categoria: Racconti
- Pubblicato Mercoledì, 01 Dicembre 2010 12:58
Tre settimane e ½ a Monaco
Estate, la famiglia al mare, un uomo in città, tante cose, troppe.... Una situazione difficile, ma anche una buona occasione, un'idea covata da tempo. Finalmente essere o continuare sempre più passivamente ad avere?
Giulio Bailetti
Stamattina sono partiti per la Francia e finalmente sono solo. Detto tra noi, era ormai da anni che aspettavo questo momento. Io non so dove abitiate voi, ma, se abitate anche voi come me in un appartamento piuttosto piccolo e con famiglia, sono sicuro che capirete bene quello che qui ho intenzione di dirvi. Il fatto è che 65 mq per quattro persone sono, secondo me, un po’ pochi.
In camera da letto siamo in tre e questo, lo capite intuitivamente, di per sé già non è l’ideale. Manca lo spazio alla piccola Stella, a Sylvie e naturalmente anche a me. Almeno Alain ha la sua piccola camera, pur se assediata dai giocattoli.
Per viverci non rimane che il soggiorno, non tanto grande, e questo è praticamente tutto. In cucina può entrare comodamente solo una persona per volta e lo stesso vale per il bagno. In corridoio si può camminare rigorosamente solo in fila indiana e quelli che stanno davanti sanno che è assolutamente vietato fermarsi, anche se fosse solo per slacciarsi velocemente le scarpe. Ma pensandoci meglio, anche questo fatto della casa piccola non è nemmeno il vero problema. Secondo me sarebbe perfino risolvibile.
Il vero problema, quello non risolvibile, è un altro: Sylvie non sopporta l’idea di buttare una qualsiasi cosa. Lei pensa che, chissà - cambiando un giorno magicamente le cose - ogni cosa un domani potrebbe ancora esserci molto utile. Infatti oggi i nostri cassetti e mobili sono così pieni, che difficilmente ormai ci azzardiamo ad aprirli: tutte le cose inutili conservate ci si riverserebbero subito addosso. Da tempo usiamo solo le cose rimaste in superficie e non approfondiamo più.
Non l’ho ancora detto a nessuno, ma una mia mezza idea segreta che covavo da tempo ora ce l’ho. A voi la posso confessare, tanto non potrete più impedirmela: ho deciso di buttare tutto, o quasi, approfittando della lontananza. “Occhio non vede, cuore non duole.”
No, Sylvie non è cattiva. Lei in realtà vorrebbe staccarsi dalle cose, almeno da alcune. E infatti a volte si mette lì, da brava, per ore, a dividere le cose da conservare da quelle da buttare. Poi però, alla fine, stanca e delusa, scuote la testa e scende a buttare solo una bustina nella pattumiera. Il fatto è che proprio non ci riesce. Non c’entra la volontà, è più forte di lei e basta.
Perciò lo devo fare io: adesso o mai più. Una cosa infatti, è vedersi buttare via, sotto i propri occhi, una montagna di cose nostre, alle quali siamo ancora un po’ legati, e un’altra cosa è tornare da una bella vacanza e semplicemente non trovarle, che poi nemmeno più ci ricordavamo di averle. È psicologicamente molto diverso, si capisce. Si torna, si trova tutto in ordine e tanto spazio. Non dovrebbe essere troppo importante se eventualmente una piccola cosa manca. Vedremo. Comunque ormai ho deciso e lo farò. Adesso.
L’ho fatto. Non lo sa ancora nessuno, ma l’ho già fatto. Ho fatto proprio come vi avevo preannunciato: ho buttato tutto, quasi tutto. Ho finito per buttare otto grandi sacchi azzurri dell’immondizia. È andata più o meno così: ho cominciato naturalmente dal fondo, dalla cantina, dove ormai non si poteva più nemmeno entrare. Prima l’ho svuotata tutta. Ho appoggiato le cose nel corridoio comune che porta alle cantine, tanto erano quasi tutti in vacanza e giù non veniva nessuno. Poi ho rimesso a posto tutte le cose che avevano una qualche speranza di essere salvate. Le ho riposte secondo un mio ordine personale, geometrico e fisico: quelle grandi e pesanti sotto e quelle più leggere e più piccole sopra, progressivamente. La costruzione sembra stabile. Qualche volta la notte mi sveglio e vado addirittura ad ammirarla. Ne sono molto soddisfatto. Al centro della cantina ho lasciato perfino un po’ di spazio per un comodo passaggio a piedi fino in fondo. Poi torno a letto e mi riaddormento contento.
È stato meno difficile di quanto pensassi all’inizio, anche se faticoso. Ho buttato subito tre sacchi di cose, diciamo così, eufemisticamente, non strettamente necessarie. Fatto posto nella mia base, cioè in cantina, ho cominciato ad applicarmi con metodo sopra all’appartamentino. Camera dopo camera, giorno dopo giorno, ho passato la mia estate a riempire altri cinque sacchi, alti come me, ma molto più larghi: due diretti in cantina (dove finalmente c’era posto), uno nell’immondizia e due per i più bisognosi di noi (ma probabilmente con più spazio), che comunque quelli ci sono sempre.
Ora, sempre secondo me, è proprio tutto in ordine. In cucina c’è spazio perfino per due persone, se non troppo grasse. Anche il soggiorno sembra un po’ più grande. La libreria di fronte ha addirittura spazi liberi, destinati a nuovi libri, cosa inaudita, mai successa prima. Il mobile in vimini poi, se ve lo dicessi, sono sicuro che non ci credereste, ma ve lo dico lo stesso: è completamente vuoto, preparato ad accogliere cose future.
Ho sistemato anche il terrazzino, di cui non avevo parlato, perché finora impraticabile. Ora che è estate, ci posso addirittura uscire: i vasi attorno e, in un angolo, altri giochi d’acqua dei bambini. Al centro ho sistemato anche una poltroncina, dove mi siedo soddisfatto, tempo tedesco permettendo.
Solo per la camera da letto, l’ingresso e il bagno, ho avuto bisogno di più di una settimana. Ho pure sistemato più stabilmente i piani di tutti gli armadi, con le viti nuove e tutto il resto. Ma ne è valsa proprio la pena. Dovreste solo venire a vedere, ma subito, perché poi non garantisco. Ora sembrano stanza quasi normali, come uno in genere immagina che lo siano solo quelle degli altri. Infatti, adesso si può anche appoggiare da qualche parte una cosa ed essere pressoché sicuri poi di ritrovarla.
La cosa più difficile in assoluto però, a questo punto, per onestà ve la devo proprio dire, è stata riordinare la cameretta di Alain ed il corridoio con i giocattoli di Stella. Il fatto è che loro non hanno un album da disegno, come immagino che abbiano tutti gli altri bambini di una certa parte del mondo, ma ne hanno dieci a testa. Non hanno un pupazzo di peluche, magari da stringere a sé, soli la notte, ma ne hanno sessantotto, di cui almeno venti molto grandi. Hanno anche oltre trecento soldatini, altrettante automobiline, grandi e costosi giochi di società, eccetera, eccetera...
E tutto questo principalmente perché Sylvie crede che i nostri bambini abbiano un gran bisogno d’affetto e che l’affetto si dimostri essenzialmente con il donare cose. Sì, lei crede fermamente che loro abbiano, come si dice, delle carenze affettive e questo tanto più da quando tra di noi ha cominciato a non filare proprio tutto liscio. È per questo che Sylvie ordina e compra tutte queste cose: per curare a modo suo le carenze affettive. Compra e non butta quasi niente. No, non si tratta di essere cattivi. È che lei è fatta così. Prendere o lasciare in blocco, per il resto non ci si può fare proprio niente. Ma questo non è ancora tutto. C’è un altro piccolo problema, lontano, ma evidentemente non ancora abbastanza. C’è che Jacqueline, la madre di Sylvie e quindi mia suocera, che vive in Francia, ha anche lei delle carenze affettive oppure viceversa, pensa che le abbiamo noi, questo esattamente non lo so. Comunque in media, almeno due volta a settimana, a volare basso, compra cose e le spedisce prontamente in Germania. E qui arriva di tutto: vestiti, soprammobili, giornali, riviste, pubblicità, giocattoli, fotografie, eccetera…
I bambini almeno ormai lo sanno che io non sono d’accordo. Quando i pacchi arrivano, non si aprono assolutamente, finché non ritorna la mamma dal lavoro. È una questione di principio, come si dice. Soffrono un po’, è vero, però almeno questa cortesia me la fanno. Poi la sera arriva Sylvie. Apre la porta. Per prima cosa guarda per terra, se c’è il caro pacco. Se c’è, non si toglie nemmeno il cappotto. I bambini naturalmente le si fanno attorno eccitati. Allora li sento parlare tutti e tre insieme, senza che nessuno di loro ascolti. Chi in tedesco, chi in francese, mai in italiano in questi casi. Sognano delle cose che forse ci saranno e che poi in genere ci sono davvero, ben informami prima telefonicamente. Raggiungono l’estasi, tra tutte quelle nuove cose. Sono talmente contenti che io ormai non ho più il coraggio di dirgli niente.
Poi, dopo almeno mezz’ora di commenti vari, Sylvie comincia a raccogliere tutto: lo spago, la carta, eventualmente il polistirolo e di sicuro le scatole. Sì, se non proprio Jacqueline, almeno le sue scatole dovreste proprio conoscerle. Sono praticamente come le scatole cinesi. Si scarta e si trova un’altra scatola chiusa. Si apre con attenzione la seconda scatola (non si sa mai, potrebbe servire anche lei) e dentro c’è un’altra scatola, spesso con protezione in paglia e così via, progressivamente. È anche per questo che i bambini si entusiasmano, è di per sé già un gioco bellissimo.
Dentro spesso non c’è niente di veramente fragile, sicuramente niente di più fragile ormai dei miei nervi. Ma anche Jacqueline è fatta così. Neppure lei è cattiva. È solo che lei le cose le fa così: prendere o lasciare in blocco. No, non necessariamente Jacqueline, né tanto meno le cose che spedisce, ma le scatole cinesi quelle sì, sono proprio sicuro che piacerebbero anche a voi, almeno le prime volte.
Io ora ho finito. Ho messo a posto tutto quello che volevo e potevo. Sono pigro, mi conosco. Però se mi metto in testa una cosa, poi finisce che la faccio, anche quando so che mi costerà cara. E questa è costata. È costata più o meno tre settimane e mezzo di lavoro duro durante le loro vacanze in Francia al mare. E dire che non ero più nemmeno abituato. Ora infatti ho male ad un piede, alla schiena, alle mani e un po’ a tutti i muscoli del corpo. Però ho finito. Ho passato anche l’aspirapolvere. Domani arrivano. Io li aspetto. In un certo senso ho finito anch’io la mia vacanza.Ieri sono arrivati alla stazione di Monaco. Sono andato a prenderli in macchina. Da buon romano ho parcheggiato facilmente e mi sono avviato verso il binario annunciato. Poco dopo, in orario, è arrivato il treno. La gente è scesa. Io ho risalito lentamente il binario, guardando in faccia tutte le persone. Ero arrivato quasi in cima al treno, ma della mia famiglia ancora nessuna traccia. Però ho vagamente notato che, vicino all’ultimo vagone, si vedeva un grande punto nero. Non era chiaro. Non sembravano loro. Comunque non avevo nient’altro di meglio da fare e ho spinto il carrello vuoto dei bagagli per andare a curiosare. Mentre procedevo lentamente senza molte speranze, ecco improvvisamente che qualcuno lascia quel punto ancora nero e comincia a correre verso di me. Ora lo riconosco. È proprio Alain. Chi altro se no, molto più biondo e abbronzato di quando era partito. Arriva alla mia altezza. Non mi abbraccia, naturalmente. Mi gira solo intorno e s’incammina con me nell’altra direzione. Senza fermarmi gli strillo: “Alain, un bacio, hai dimenticato?” Lui non ama baciare, questo ormai lo avrete capito. Correndo, mi offre accondiscendente una guancia.
Ora vedo anche la piccola Stella, biondissima e con i capelli lunghi, che freme dalla voglia di corrermi incontro. Ma Sylvie la blocca con gli occhi. Non sopporta l’idea di un bambino che corra vicino ad un treno, anche se ormai definitivamente fermo. Questa cosa è così e non ci si può fare niente. Vedo che Stella vorrebbe reclamare, ma poi non lo fa. Conosce bene sua madre e poi adesso è troppo contenta. Ora è già tra le mie braccia. Ci baciamo alcune volte, anche sulla bocca. Stella ha solo tre anni. Però aderisce al mio corpo già come una vera donna. Si vede che è contenta come una pazza.
Mi cominciano a parlare tutti e tre contemporaneamente in francese, come quando scartano i pacchi di Jacqueline. Ora, io una persona che parla semplice in francese la capisco, ma più di una per volta, no. Allora mi distraggo e istintivamente mi metto ad osservare meglio il punto nero e capisco: è una montagna di valigie, di borse nuove e di bagagli. E sono i loro. Però, allenato da tempo, mi trattengo, lo giuro, non lascio trasparire proprio niente.
Stella naturalmente rimane in braccio a me, fino a che non arriviamo alla macchina, guancia contro guancia. Una signora tedesca, che anche lei aspetta, ci guarda complice e sorride. Poi decido di far loro una sorpresa. Cioè, dico che c’è una sorpresa, ma non dico quale. Loro si eccitano e cominciano a sognare regali: forse, a modo mio, anche il mio lo è. Io, impunito, dico che tanto non indovineranno mai. Loro non mi credono e provano inutilmente a fantasticare, fino a quando non arriviamo a casa.
Alain si catapulta per primo nell’appartamento. Non si rende conto subito. Va in camera sua e poi torna di corsa strillando: “Grazie, papà!” e mi bacia, di sua spontanea volontà. Incredibile.
Poi entra Sylvie. All’inizio sembra anche lei contenta, lo vedo. Si muove tra le cose con una disinvoltura, che prima non aveva mai potuto avere. Mi dice un paio di parole gentili. Dopo però mi metterà il broncio per giorni, perché è convinta che io le abbia buttato anche un certo ritaglio di rivista, per lei molto importante. A tutt’oggi non ho ben capito se di cucina o di moda. Però questa volta Stella rimane a lungo a ballare in braccio a me.
(2010-4 pag 56)