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Fate l’orchestra, non la guerra

Storia di un progetto folle divenuto realtà

Ein Film dokumentiert die Geschichte des interkulturellen Ensembles „Orchestra di Piazza Vittorio", das vom Regisseur Agostino Ferrente und dem Musiker Mario Tronco in Roms Bahnhofsviertel Esquilino gegründet wurde. Trotz der erfolgreichen Deutschland-Tournee im Jahr 2005 war die multiethnische Gruppe noch nie zu Gast in München: Wir hoffen auf einen baldigen Auftritt!

Rosanna Ricciardi

A vedere “L’Orchestra di piazza Vittorio”, a sentire come il regista Agostino Ferrente e il musicista Mario Tronco parlano di quella che nei momenti più difficili hanno pensato fosse “…solo una bella idea che forse tale doveva rimanere…”, a vedere la forza e la caparbietà che questi due artisti, migranti a loro volta, hanno messo in questo progetto, viene in mente un mito della Grecia di 30 secoli fa, una dea partorita dalla testa del padre già adulta e armata di lancia e scudo. C’è una scena speciale nello speciale “Sona e altre storie”, che fa parte degli extra del DVD del film, in cui Mario Tronco (pianista degli Avion Travel, il gruppo casertano a cui è riuscito, nonostante lo stile colto e raffinato, di vincere il Festival di Sanremo) dice che quest’orchestra ha riempito un forte desiderio di paternità e maternità che lui e sua moglie avevano.E allora ci viene in mente appunto un signore che nella Grecia di 30 secoli fa qualcuno chiamò Zeus, e decise che era un dio e pensiamo che Mario Tronco è un po’ come lui e che dalla sua testa sono nati non una ma tanti figli già adulti, armati non di lancia e scudo, ma di cymbalon, tromba, flauto e sassofono, viola, violino, violoncello e contrabbasso, chitarra e oud, tablas e dokhla, djembe e cajon.


Adulti dai nomi più familiari, come Giuseppe, meno familiari, come Amret, da cinema, come Raul, dolci, come Houcine. Approdati a Roma provenienti da un Sud prossimo, come Caserta, o più lontano, come il Senegal. Scappati da dove un’iniziativa come insegnare musica ai bambini o un desiderio come girare il mondo sono mal tollerati. E poi vengono dal Maghreb, dal Rajastan, dall’Ungheria e dall’Argentina, da Cuba e dagli Stati Uniti questi adulti che come bambini, quando suonano e cantano, cercano gli occhi di Mario-papà, come bambini si prendono in giro l’un l’altro, come bambini a scuola escono dalla sala prove simulando una pausa mai chiamata non appena Mario-maestro si assenta un attimo. Il film è bello e speriamo davvero che approdi anche nelle sale tedesche, ma per capire appieno il senso di questa storia, di questa sfida, di questa fata morgana fattasi orchestra, bisogna vedere gli extra contenuti nel DVD già edito in Italia, le scene tagliate in cui i bambini giocano all’intervista sul pullman “in viaggio per dove?

 

Non si sa…” E soprattutto lo speciale in bianco e nero in cui parlano a ruota libera di sé, degli altri componenti, dove s’intuiscono attriti e rivalità sempre stemperati in un sorriso; da cui più che nel film, dove si è interessati soprattutto allo svolgersi degli avvenimenti, si capiscono i caratteri di questi “musicisti instabili di un’orchestra stabile”. Nelle (poche, troppo poche) sale in cui veniva proiettato in Italia, talvolta con successivo concerto, il film ha ottenuto un successo straordinario: solo al Nuovo Sacher di Nanni Moretti tre settimane di tutto esaurito con lo scontroso regista che dichiara di non aver mai visto il pubblico uscire così felice. E poi articoli entusiasti – ovviamente solo su giornali di un certo schieramento: la convivenza tra i diversi cittadini del mondo ha purtroppo ancora un solo colore in Italia. L’Unità propone una candidatura all’Oscar per il film, Diario una (meno realistica ma che bello sarebbe!) al Nobel per la pace per l’ideatore e instancabile organizzatore di questo ensemble colorato e interculturale: l’Orchestra i suoi premi li sta già vincendo in giro per l’Italia e, speriamo, presto in giro per il mondo. Perché loro lo sono un mondo. In miniatura, con piccole e grandi incomprensioni, con gli sfottò sulle rispettive debolezze e sulla loro diversità.


Di grande insegnamento dovrebbe essere quanto detto da Peppe D’Argenzio: “sembra impossibile che possa funzionare all’inizio, ma poi quando ci sei dentro è tutto così facile…”. Houcine è tunisino e proprio non ce la fa a considerare il paparapapa di Carlos, equadoregno, come una canzone. Pino Pecorelli è romano e non ce la fa a trattenersi dall’ancheggiare à la Zecchino d’Oro mentre canta Bilal, indiano. John, americano, dice a Mohammed, marocchino, che lui il violino lo suona diverso di lui. E Javier, argentino, definisce il box-abitazione di Raul, argentino, una “porcheria all’argentina”.


Ma c’è un fil rouge che lega tutte queste affermazioni e che cementa questo gruppo anomalo eppure armonico, ed è un sorriso e il sorriso è spesso espressione di desiderio “che non è l’amore (…). Il desiderio è qualcosa che scuote, che ti morde e ti costringe a uscire, andare, fare. Non riusciremo ad amarci l’un l’altro. Ci pestiamo i piedi uomini con donne, figurati bianchi con neri, ricchi con poveri, indigeni e forestieri. Però abbiamo desideri. Ed è di questi che dovremmo occuparci. Non sopportarci, tollerarci e neanche amarci. Ma desiderarsi.” Così Elena Stancanelli nel numero 10 di Romaeuropa News e così è che è nata l’Orchestra di Piazza Vittorio, da chi questa idea l’ha fortemente voluta ed è stato così caparbio da trasmettere il desiderio a tutti gli altri. Mario Tronco non si è lasciato abbattere da pastoie burocratiche, scogli linguistici, fidanzate gelose, concezione del tempo ancora più approssimativa che a Caserta, incapacità d’integrarsi nel gruppo (l’unico momento in cui lo si vede seriamente irritato è quando uno dei “figli”, armato sì di gran voce e millenaria tecnica, ma anche di scarsa umiltà, si paragona a Uto Ughi, sminuendo la professionalità di altri membri del gruppo); pur con tempi stringatissimi per provare, insieme a Ferrente ha sempre creduto al progetto, fino all’applauditissimo concerto del 24 novembre 2002 al Romaeuropa Festival.


E forse il messaggio più rilevante e più prezioso di questo film è questo: se non si possono convincere due esseri umani ad amarsi, li si può però coinvolgere e far appassionare ad un progetto comune che abbia come fine il benessere di entrambi. È per questo che ci sentiamo di condividere l’iperbolico invito di Diario ad assegnare il Nobel per la pace a Mario Tronco. E se è troppo iperbolico si potrebbe con una spesa contenuta inviare il DVD a qualche capo di stato che avrebbe forse qualcosa da imparare da un pianista di Caserta con aspetto da folletto e forza da gigante e da un regista dallo sguardo lungo che insieme ad altri ha sottratto alle grinfie di un dio-denaro, che nella Roma di inizio millennio si manifesta a volte sotto le spoglie di sala bingo, un cinema storico. E naturalmente da un gruppo di musicisti che fino alla fine si guardano attorno stupiti come bambini, increduli che un oud tunisino possa parlare con un djembe senegalese, un cymbalon rom con una tromba cubana, un flauto andino con le tablas indiane, producendo un’armonia che fa bene a loro e a chi li ascolta.

2007-1 pg 15


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