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Il silenzio che parla

Laura Benatti

Como, 27 giugno 2017.
…E come il vento
odo stormir tra queste piante, io quello
infinito silenzio a questa voce
vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
e le morte stagioni, e la presente
e viva, e il suon di lei
(G. Leopardi “l’infinito”)

“Infinito” ed ”Eterno”: queste due parole richiamano rispettivamente la dimensione dello spazio e del tempo, della perpetuità sia in riferimento al passato sia in riferimento al futuro, ma non al presente perché questo è solo un attimo, un impercettibile movimento d’ali di una farfalla, un battito di ciglia… lo spazio e il tempo uniti creano l’immensità  che il pensiero umano non riesce a sostenere, poiché non è in grado di racchiudere in sé questa grandezza incommensurabile, ma tuttavia perdersi in questa dimensione, in queste riflessioni è bellissimo.

La voce dell’infinito è l’espressione dei ricordi, dei pensieri, di tutto ciò che adesso non c'è, di tutto ciò che il mondo ha visto e di tutto ciò che ancora non ha visto... È un “infinito silenzio” che, pur essendo impercettibile da orecchio umano, tuttavia è in grado di comunicare più di tutte le parole e le lingue del nostro misero mondo. Questo silenzio che parla ha creato una pace ed una immobilità divine, un distacco dall’agitato ed irrequieto mondo umano. L’animo del Leopardi dell’essere finito, scavalca così i limiti della sua individualità e si sperde, smarrito, in quell’infinita vertiginosa vastità, che cancella ogni traccia della propria miseria.

È un silenzio di cui già il filosofo e matematico greco Pitagora (580 a.C./495 a.C.) aveva intuito l’esistenza: gli uomini, essendo abituati fin dalla loro nascita ad udire l’armonia del suono che deriva dal movimento delle sfere celesti, non hanno mai vissuto l’esperienza del puro silenzio che abbia permesso loro di riconoscere distintamente le vibrazioni sonore dell’universo. Secondo Pitagora, il Sole, la Luna e i pianeti del sistema solare, per effetto dei loro movimenti di rotazione e rivoluzione produrrebbero un suono continuo, impercettibile dall'orecchio umano, e tutti insieme creerebbero un'armonia. Così racconta Giamblico (250 d.C./ 330 d.C., un filosofo siro di lingua greca vissuto in età romana) “… valendosi di un divino potere, ineffabile e arduo a concepirsi, Pitagora sapeva tendere l'orecchio e la mente alla sublime musica celeste. Ed era l'unico in grado di udire e intendere l'armonia universale e la musica consonante delle sfere e degli astri che entro queste si muovevano. Tale armonia rende una musica più pura e più piena di quella umana, grazie al movimento dei corpi celesti, il quale è caratterizzato da suprema ed eccezionale melodia e da multiforme bellezza. Queste ultime sono il prodotto dei suoni celesti, i quali traggono sì origine dalle ineguali e in vario modo tra loro differenti velocità, grandezza e posizione dei corpi, ma sono nondimeno collocati in reciproca relazione nel modo più armonico”.

Cicerone, nel “Somnum Scipionis”, una parte dell’opera maggiore “De republica”, sostiene invece che i mortali non possono percepire la musica celeste in quanto è tale la sua intensità che la sensibilità limitata degli uomini è incapace di coglierla. L’autore romano riprende la teoria pitagorico-platonica della musica delle sfere all’interno appunto di un fantastico incontro tra Scipione l’Africano e il nipote Scipione l’Emiliano: in tale contesto l’avo predice al discendente le sue future gesta gloriose e, nel contempo, gli illustra le meraviglie del cosmo. Egli spiega che i movimenti delle stelle non possono compiersi in silenzio, ma i suoni da loro prodotti sono differenti a seconda della velocità del movimento. La musica, l’armonia, il kosmos, la regolarità, la disciplina, la razionalità, hanno da sempre affascinato i pensatori greci, tant’è che il filosofo greco Platone ne “La Repubblica” considera la musica, insieme alla ginnastica, disciplina principe per l’educazione dei fanciulli e con la geometria, l’aritmetica e l’astronomia, un insegnamento propedeutico alla filosofia.

L’idea di equilibrio interiore ed esteriore, tanto cara ai Greci, di giusta misura, non ha potuto fare altro se non regalarci pensatori, scienziati, matematici, astronomi, che solo i mezzi tecnici del tempo hanno impedito loro di superare i nostri contemporanei.

Concludo con due citazioni tratte dal Padre della lingua italiana.

Quando la rota, che tu sempiterni
Desiderato, a sé mi fece atteso,
Con l’armonia che temperi e discerni,
Parvemi tanto, allor, del cielo acceso
De la fiamma del sol, che pioggia o fiume
Lago non fece mai tanto disteso.
La novità del suono e ’l grande lume
Di lor cagion m’accesero un disio
Mai non sentito di cotanto acume.
(Dante, Divina Commedia, Parad. I, 73-84)

Così fui sanza lagrime e sospiri
anzi 'l cantar di quei che notan sempre
dietro a le note de li etterni giri;
(Dante, Divina Commedia, Purg. XXX, 91/93)

 

http://www.youtube.com/watch?v=G17CdMB7xqg

 

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