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- Categoria: lettres italiennes
- Pubblicato Sabato, 10 Agosto 2013 16:44
Quando si dice il peso del nome
Lettres italiennes
Corrado Conforti
Monaco, 10 agosto 2013
Immaginate di chiamarvi Leopardi ed essere un illetterato completo. Oppure Fermi e non capire niente di fisica. O ancora Caruso e non saper articolare due note.
Certo, nessuno è responsabile del nome che porta, e il fatto che qualcuno prima di noi, con il nostro stesso cognome, abbia mostrato un talento particolare in una qualche materia, non ci obbliga a tentare di ripeterne le imprese.
Le cose cambiano un poco (ma solo un poco) quando si discenda da un qualche grande talento e il cognome sia lì ad attestare la parentela. In questo caso chi fosse a conoscenza della nostra origine sarebbe forse autorizzato ad aspettarsi da noi una qualche inclinazione che ci avvicini al nostro illustre predecessore. Noi però abbiamo tutto il diritto di deluderlo, visto che le leggi della ereditarietà sono piuttosto capricciose e che, se consentono che da un mediocre nasca un talento, permettono ugualmente che da un genio possa discendere un fesso. Caso quest'ultimo assai più frequente di quanto si creda.
Il problema nasce quando chi abbia avuto un predecessore illustre si ritiene obbligato a calcarne le orme e si sforza di dimostrare a se stesso e al mondo di essere in possesso di quei requisiti che hanno reso famoso l'illustre parente. Il problema però nasce solo per lui. Se privo del talento naturale, il poveretto farà solo delle brutte figure e, intestardendosi nel tentativo di assomigliare a chi l'ha preceduto, sarà catalogato, qualora non riesca nell'impresa, proprio nella categoria alla quale il suo modello non apparteneva: quella degli imbecilli, l'unica nella quale non ambiva finire.
Un centinaio di anni fa si affacciò sulla scena politica italiana un individuo di assai umili origini. L'indubbio talento politico, la spregiudicatezza, l'indiscussa capacità oratoria, la sconfinata ambizione, lo portarono ad impossessarsi dell'intero Paese e ad attribuirsi il titolo di Duce degli italiani. Lo tradì proprio l'esagerata considerazione che aveva di sé, alimentata dalla piaggeria di chi lo circondava. Illudendosi di poter vincere una guerra senza quasi combatterla, portò il Paese alla rovina, facendo al contempo una fine tragica e ingloriosa: riconosciuto mentre tentava di scappare in Svizzera insieme alla giovane amante, fu fucilato e poi esposto a Milano in piazzale Loreto.
Diciassette anni dopo nasceva a Roma da Romano, figlio del Duce e stimato musicista jazz, e da Maria Scicolone, sorella della celebre attrice Sofia Loren, Alessandra Mussolini.
È facile immaginare che la bambina sia cresciuta con il peso di un tale cognome, anche se noi ignoriamo se qualche volta, come non è da escludere, abbia sofferto a causa di esso. Fatto sta che quel nome da molti detestato, e da qualcuno, ahimè, ancor oggi amato, le fornì una precoce identità che la giovane si sforzò ben presto e in vari modi di affermare.
E qui nascono i problemi. Problemi suoi, ovviamente, perché, se le sue infelici trovate hanno forse creato qualche imbarazzo a chi le sta vicino, le medesime, diversamente dalle decisioni del nonno, non hanno mai costituito un pericolo per il Paese.
Alessandra tentò prestissimo la carriera artistica sia in campo musicale che in quello delle scene. Le andò male in entrambi, benché, per richiamare su di sé l'attenzione che né la sua voce né la sua recitazione le assicuravano, giunse anche a spogliarsi su Playboy. Si buttò allora in politica e lo fece in un anno, il 1992, in cui questa, dopo essere ormai diventata pornografia (nel senso lato del termine), si apprestava, grazie all'affermarsi di un uomo di sconfinate risorse economiche e di nessuna risorsa morale, a diventare pornocrazia (stavolta in senso letterale). Ma a questo punto Alessandra aveva non solo trovato la sua strada, ma aveva scoperto quale talento aveva ereditato dal nonno. Non quello politico ovviamente, ché di politica lei non ha mai capito niente, ma quello buffonesco e squadristico. Eccola così presente in ogni rissa televisiva e pronta a urlare di tutto, anche che essere fascista è meglio che essere frocio. Ed eccola ultimamente cercare l'attenzione delle telecamere indossando una maglietta ridicola, perdonabile forse a una ragazzina sciroccata, ma certo non a una cinquantenne per giunta anche senatrice. Ed eccola toccare il punto più basso (finora) della sua carriera, producendosi in Senato in una sorta di intervento in napoletano, la splendida lingua di Di Giacomo che la poveretta non conosce e che quindi può solo storpiare.
Non si rende conto la sventurata che, così facendo, riesce solo a confermare quanto detto dall'odiato (da lei) Karl Marx, secondo il quale quando la storia si presenta due volte, lo fa la prima come tragedia, e la seconda come farsa. Nel suo caso come sceneggiata o, peggio ancora, come pura piazzata.