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La lupa del Campidoglio

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 7 giugno 2017.
Non sono mai stato un bambino irrequieto, eppure capitava che, se mi annoiavo (e questo capitava tutte le volte che i miei mi portavano in qualche posto in cui non volevo andare), cominciavo ad agitarmi. Mio padre, a volte divertito, ma di solito irritato, mi diceva allora “Me pari la lupa der Campidojo”. La lupa del Campidoglio la vidi poi in una domenica dei primissimi anni '60. Il ricordo, sebbene vago a causa dei decenni passati, ha tuttavia in un punto una sua nettezza. Rivedo, sulla parete tufacea della Rupe Tarpea, una povera bestia spelacchiata che si muoveva in una gabbia troppo piccola per lei. In quegli anni i sentimenti animalisti non erano diffusi, tuttavia ricordo la pena che mi fece quell'infelice animale; infelice come le altre bestie del giardino zoologico: gli orsi polari, costretti alle temperature a volte torride di Roma, e le scimmie, così simili a noi, che ripetevano sempre gli stessi movimenti, ad attestare la nevrosi sviluppata nel corso della cattività.

Per anni ho creduto che quella inutile crudeltà (mi riferisco a quella della lupa) fosse nata durante il fascismo, un periodo in cui, perso ogni senso del ridicolo, si celebravano i simboli della Roma imperiale, convinti che quegli anni di grandezza fossero ritornati grazie alla megalomania di un maestro romagnolo che si credeva il nuovo Augusto. Mi sbagliavo. L'idea bislacca risaliva addirittura al 1872, vale a dire a un anno in cui Roma era appena diventata capitale del Regno d'Italia. E non solo una lupa fu richiusa in una gabbia ancora più piccola di quella che io vidi; anche un aquila (un rapace che già da solo è simbolo della libertà) conobbe, sempre sul Campidoglio, la medesima sorte. Già, il Capitolium degli antichi romani, il primo dei “colli fatali” come li chiamava il maestrucolo di cui sopra, splendido in epoca imperiale e talmente decaduto durante il medio evo da perdere il suo stesso nome. “Monte caprino” lo si chiamava allora, per il fatto che sulle sue pareti scoscese pascolavano le capre. Curioso questo zoo capitolino al quale a questo punto si devono aggiungere le famose oche sacre a Giunone, quelle che nel 390 a.C. durante l'assedio di Brenno svegliarono i soldati romani permettendo loro di respingere l'attacco notturno dei Galli Senoni. Pare poi che, sempre nel medio evo ma in un periodo meno buio, un'altra gabbia abbia ospitato un leone, allora simbolo della città. Il felino sarebbe poi stato abbattuto per il fatto di aver sbranato un poveretto che gli si era avvicinato troppo, a riprova del fatto che l'unico posto in cui certi animali dovrebbero stare è il loro habitat naturale. Da quel momento e fino al 1872 non risulta sul colle la presenza di altre bestie. Quella della lupa e dell'aquila durò poi un solo secolo. L'ultima lupa morì nel 1954. Quella che io vidi, come ho scoperto in internet, era in realtà un esemplare maschio.

La sciocca e crudele tradizione finì con i primi anni '70. Occorreva il vento di rinnovamento che era cominciato a spirare a metà del decennio precedente, perché qualcuno capisse che anche gli animali hanno i loro diritti e che questi non possono essere calpestati dai capricci degli umani, dei quali il nazionalismo è certo uno dei più stupidi. Può essere interessante a questo punto andare su Youtube e digitando “Tornerà la lupa?” guardare un filmato dell'Istituto Luce risalente proprio all'anno della morte della povera bestia, per sentire i pareri di un anonimo cittadino, favorevole al ritorno dei due animali simbolo di quella che lui definisce “Roma eterna”, e dell'allora presidente dell'Ente Nazionale per la Protezione degli Animali, che si dichiara giustamente contrario al “perpetuarsi della vecchia costumanza romana di tenere rinchiuse e segregate a vita due povere bestie”.

Recentemente altri animali, meno simbolici, si sono visti in città. Oltre ai ratti e ai gabbiani anche un cinghiale, qualche settimana fa, si è affacciato in città, percorrendo una via neanche tanto periferica. Ultimissima apparizione è stata quella di un topo che, abbandonando forse la zona bassa dei Fori si è arrampicato su per il Campidoglio tentando addirittura di entrare nel michelangiolesco Palazzo Senatorio. L'episodio è stato eletto da molti a simbolo del degrado di Roma, a metafora dello sfascio cittadino, lettura che certamente si può condividere. Io però ne suggerisco un'altra: quella dell'avveramento di una profezia del poeta latino Orazio espressa nella sua Ars poetica.

Un anno fa, accompagnata da un assordante clamore mediatico e da dichiarazioni apodittiche e a volte apocalittiche, si è installata la nuova (per il momento) giunta cittadina. Sembrava, a detta dei suoi sostenitori, l'inizio di una nuova era. Si parlava di progetti avveniristici, di collegamenti in funivia, addirittura di distribuzione di pannolini lavabili. Al momento di tale montagna di belle promesse non si è visto niente. O meglio sì, qualcosa si è visto: il topo di cui sopra, che ha appunto confermato la profezia oraziana. Quale? Questa: Parturient montes, nascetur ridiculus mus. "I monti partoriranno e nascerà un ridicolo topo". Più di quello finora non si è visto.

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