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- Pubblicato Giovedì, 23 Aprile 2015 21:58
Dillo in italiano
Lettres italiennes
Corrado Conforti
Monaco, 22 aprile 2015.
Nel secondo capitolo dei Promessi Sposi il bravo ma impulsivo Renzo contrappone a quel pusillanime di don Abbondio (il quale cerca di confonderlo elencando in latino quelli che secondo lui sono gli “impedimenti dirimenti” al matrimonio del giovane), una frase che è diventata famosa: “Che vuol ch'io faccia del suo latinorum?”
Il parroco, diventato simbolo di codardia, e di una codardia tutta italica, visto che è tipica di un popolo che prima si è inchinato ai prepotenti stranieri e poi a quelli nostrani, il mediocre curato dicevo cerca di confondere il promesso sposo ricorrendo a una lingua che il poveretto non capisce, ma al cui uso strumentale reagisce con irruenza. Il trucco del resto gli era noto, come era noto a tutti coloro che in quegli anni (quelli in cui si svolgono i fatti) dovevano sorbirsi in latino la stessa parola di Dio ripetuta durante le messe; e guai se provavano a leggersela da soli in una qualche traduzione della bibbia in italiano messa all’indice. Si pensi che la prima traduzione accettata da Santa Romana Chiesa è quella del 1780, appena nove anni prima cioè della Rivoluzione francese, curata dall’arcivescovo di Firenze Antonio Martini.
Il viziaccio di parlare oscuro per non farsi capire e dunque per confondere i sudditi e privarli così dei loro diritti, non si perse con la creazione dello stato nazionale. Tutt’altro. Mentre un esercito di maestri, anzi, soprattutto di maestre (e solo da qualche anno la storia ha cominciato a occuparsi di questa categoria benemerita) consumava le sue energie, ripagato da un salario miserrimo, per alfabetizzare un popolo di ignoranti, lorsignori, come li chiamava il grande Mario Melloni, continuavano a esprimersi e a legiferare in un linguaggio da iniziati. Visto che ricorre quest’anno il centenario dell’entrata in guerra del Regno d’Italia, vanno ricordati tutti i tromboni nazionali, da Marinetti a Papini a D’Annunzio, che in un linguaggio roboante e incomprensibile a chi dovette passare dal fango dei campi a quello delle trincee, parlavano di “un caldo bagno di sangue nero” e di altre sconcezze del genere.
Al bagno di sangue seguirono le gragnuole di manganellate, distribuite da una milizia di vigliacchi, a chi dopo averlo versato quel “sangue nero”, reclamava il mantenimento delle promesse che gli erano state fatte nelle giornate successive a Caporetto. Li capitanava un altro che della lingua fece scempio, nei vent’anni in cui ebbe modo di affacciarsi da un balcone, trasformandola in uno strumento atto ad abbindolare i gonzi, così tanti in quell’epoca da formare un esercito di scimmiottatori.
La Repubblica seguita al disastro morale e materiale prodotto dal fascismo, sembrò ripartire col piede giusto segnando i suoi confini in una costituzione finalmente figlia, nelle parole che la compongono, della meravigliosa lingua del Galileo dei “massimi sistemi” e del Manzoni dei Promessi Sposi. Ma dietro il bene si nasconde sempre il peggio. Come potevano perciò inverarsi le disposizioni della Carta fondamentale se l’applicazione passava sotto le forche caudine dei nostri fumosi codici?
Ma al peggio non c’è limite e la battaglia per la chiarezza non ha mai avuto molti partigiani. Molti ricordano a questo proposito le famose “convergenze parallele” di Aldo Moro, dopotutto solo una metafora e neanche troppo infelice. Le sconcezze avvenivano negli ambiti dei regolamenti e dei moduli da riempire. E visto che alle fine degli anni ’60 qualcuno si illuse essere maturi i tempi per una rivoluzione, invito chi mi legge a reperire una sola delle pubblicazioni dell’ultra sinistra di quegli anni per inorridire davanti a una lingua che era figlia legittima del peggior burocratese.
Alla consueta mancanza di chiarezza contro cui mai nessuno ha preso una vera ed efficace iniziativa, si è aggiunto da qualche anno un uso impudente dell’inglese. Non ci bastava offendere Dante, bisognava evidentemente insultare anche Shakespeare.
Per combattere questo estremo abbrutimento Annamaria Testa ha avviato una raccolta di firme per promuovere un’iniziativa (#dilloinitaliano) il cui scopo è quello di usare l’italiano là dove la nostra lingua non ha bisogno, per comunicare un concetto, di una locuzione anglosassone.
Sarà difficile però convincere qualche nostro asino in salvagomiti a esprimersi con quella chiarezza che gli è da sempre nemica. Chi potrà mai convertire alla semplicità quello stesso imbecille che chissà in quale anticamera ministeriale ha cominciato a usare l’avverbio “piuttosto” al posto della semplicissima e chiarissima locuzione disgiuntiva “o”?