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- Categoria: Economia
- Pubblicato Domenica, 26 Febbraio 2012 16:14
Europa, quo vadis?
Falsi problemi e vere sfide di un continente vecchio e in crisi di identità
Zehn Jahre nach seiner Einführung wird der Euro aufgrund der Wirtschaftskrise auf eine harte Probe gestellt. Das politische Überleben Europas steht auf der Kippe. Allerdings könnte die Krise der Aufschwung für die politische Verbundenheit des „Alten Kontinents“ bedeuten.
Pasquale Episcopo
Monaco, 25 febbraio 2012.
All’alba di venerdì 17 febbraio l’Europa ha salvato la Grecia dal fallimento e così facendo ha salvato se stessa. Ma il fallimento greco è stato evitato solo pro tempore. Nonostante il nuovo maxi-prestito di 130 miliardi di Euro, il Paese ellenico non può considerarsi salvo e quindi neanche l’Europa lo è. Quello concordato a Bruxelles è stato solo l’ennesimo compromesso raggiunto in extremis. Soltanto cinque giorni dopo l’accordo, l’agenzia di rating Fitch ha declassato la Grecia di due gradini, da CCC a una sola C, un livello che precede la D e cioè il default, ovvero l’insolvenza, ovvero la bancarotta. In un mondo sempre più dominato dai mercati finanziari e dove le agenzie di rating la fanno da padrone, un simile declassamento equivale a una condanna a morte.
Ma la domanda cruciale è un’altra: se la Grecia fallisse, è plausibile un effetto domino su altri Paesi europei e persino sull’intera Unione Europea?
È dal 2009 che l’Europa si dibatte in questa crisi che sembra non aver fine. La crisi ha messo in luce da un lato difficoltà di tipo congiunturale, come disoccupazione e debito pubblico, dall’altro inadeguatezze intrinseche al “sistema Europa” nel suo complesso. Da queste ultime deriva un’incapacità tutta europea di produrre una visione strategica per il futuro. Compromessi, voltafaccia e accordi last-minute si ripetono senza soluzione di continuità sul palcoscenico del teatrino dell’euro-confusione. La crisi si è drammaticamente acuita da quando si è scoperto che i debiti sovrani di alcuni Paesi come la Grecia e l’Italia hanno raggiunto livelli insostenibili. Scoperta tardiva, visto che l’Italia già nel 1995 aveva, in termini percentuali rispetto al Prodotto Interno Lordo (PIL), lo stesso debito di oggi e cioè il 120%. Rapportare il debito al PIL è però un’operazione cosmetica che elude i termini reali del problema. Il debito pubblico è debito degli Stati, mentre il PIL è la ricchezza totale prodotta dai cittadini. Ne deriva che è la Germania (con l’80% del suo PIL) e non la Grecia ad avere in assoluto il debito più alto in Europa. E il fatto che in Germania il PIL sia elevato e cresca ogni anno non costituisce in sé una garanzia per il saldo del debito tedesco. Mercati e agenzie di rating completano il quadro con i loro giochi, spesso incomprensibili e perversi, in cui vince solo chi controlla la stanza dei bottoni della speculazione. E a perdere sono sempre loro, i più deboli e i più poveri.
Se è innegabile che quella dei debiti sovrani è divenuta una minacciosa mina vagante, rimane il sospetto che intorno ad essa si sia gonfiata una bolla che ne ha ingrandito a dismisura le dimensioni. Il debito è diventato così il motivo principale degli euro-litigi e degli euro-ricatti, ma nello stesso tempo anche un pretesto per non vedere e riconoscere che le sfide e i problemi veri dell’Europa sono altri. Sono problemi la cui soluzione richiederebbe una visione più unitaria, ma che invece è ancora lungi da poter essere conseguita. E così molti governi continuano a coltivare l’orticello di casa sfruttando consensi interni alimentati da rigurgiti anti-europeisti e per di più antistorici.
Il mondo di oggi è assai diverso da quello nato a Yalta praticamente alla fine della Seconda Guerra Mondiale. La Guerra Fredda che ha assicurato la pace in virtù della paura della guerra non è che un lontano ricordo frantumatosi con la caduta del muro di Berlino. Al suo posto si è progressivamente fatta strada e ha messo radici una fiducia transnazionale basata sulla possibilità per vaste aree del mondo di accedere alla ricchezza e al benessere. A far da arbitro in questa nuova logica di relazione tra i popoli è stata l’economia di mercato che ha trovato nel vento della globalizzazione un fattore moltiplicatore per lo sviluppo. Che piaccia o meno, oggi viviamo su un pianeta dominato dalla globalizzazione. È la globalizzazione che detta le regole, che crea gli equilibri, che genera sicurezza o insicurezza. Possiamo criticarla, ma non possiamo negarla perché sarebbe come negare che la Terra ruota intorno al suo asse.
In un mondo dove è il mercato a dettare legge, l’Europa deve competere con colossi del calibro della Cina, dell’America, del Giappone, mentre all’orizzonte si affacciano nuove potenze economiche come Brasile, Russia e India. Nell’odierna scena mondiale l’Europa è diventata l’anello più debole della catena e la sua politica risulta insufficiente a contrastare la forza dei mercati. L’Europa Unita del 2012 è tutt’altro che unita e molte delle sue nazioni sono dibattute da lacerazioni ampie e da movimenti di opinione che rendono l’idea europea impopolare. Le cose vanno anche peggio per il sottoinsieme di Paesi che hanno aderito alla moneta unica. A dieci anni dalla sua introduzione oggi è lecito chiedersi: che ne sarà dell’Euro tra dieci anni? Purtroppo nessuno che non abbia capacità divinatorie è in grado di dare una risposta. Ma ciò che è più allarmante è che al momento attuale girano troppe voci pessimiste secondo le quali la moneta unica così com’è e funziona oggi non sopravvivrà neanche per i prossimi dieci mesi.
L’Europa di oggi è al tempo stesso vittima e carnefice di se stessa. Essa è il risultato di un progetto ambizioso solo in teoria, ma che nella pratica si è scontrato con velleità ed egoismi che hanno impedito la predisposizione di quegli elementi che ne avrebbero consentito la realizzazione. La Costituzione ad esempio. Osteggiata e bloccata da due referendum popolari (in Francia e in Olanda) fatti per motivi pretestuosi e strumentali. Al suo posto vige una serie di trattati complessi e farraginosi a fronte dei quali è stata creata un'architettura funzionale articolata in una miriade di istituzioni con compiti e finalità diverse. Al centro ci sono Parlamento, Commissione e Consiglio europei; al vertice non una, ma quattro personalità politiche: sono i tre Presidenti delle suddette istituzioni e in aggiunta l’Alto rappresentante per gli affari esteri; in carne ed ossa rispettivamente il tedesco Martin Schulz, il portoghese José Manuel Barroso, il belga Herman Van Rompuy e la baronetta inglese Catherine Ashton. Chi sono costoro? Un’Europa quadricefala, ma senza una vera testa, priva di peso a livello mondiale, inevitabilmente alla mercé dei governi dei Paesi più forti, in primis Germania e Francia, che invece di favorire scelte unitarie applicano la politica del “divide et impera” allo scopo di poter dettare la loro legge.
Ma torniamo alla crisi. Sicuramente Berlino e Parigi non vogliono il default di Atene perché ne temono le ripercussioni. E anche al di fuori dell’Europa a nessuno conviene che il Vecchio Continente, o una parte di esso, vada in default. Non conviene alla Cina, all’America, al Giappone e a tutti quei Paesi che hanno intensi rapporti commerciali con l’UE e che detengono anche ingenti quote di credito. Tuttavia al resto del mondo può far comodo avere un’Europa frammentata e debole politicamente, completamente assente sul piano della politica estera, mentre nel mondo, e in particolare sulle coste meridionali del Mediterraneo, sono in atto sconvolgimenti che modificheranno gli equilibri geopolitici di una vasta area del pianeta.
Ma non è detta l’ultima parola. È improbabile, ma forse la crisi getterà i semi di una discussione nuova sul significato e sul ruolo dell’Europa, e allora dovranno emergere le vere necessità del Continente. I problemi dell’Europa vanno ben al di là del debito e riguardano una molteplicità di campi che interessano più da vicino i cittadini. Sono problemi che richiedono sforzi comuni per poter attuare cambiamenti estesi e soluzioni durature. Sono i problemi della politica energetica e ambientale, della difesa e della sicurezza, della salute, dell’agricoltura e della pesca, della ricerca e della formazione, oltre naturalmente a quelli legati alla crescita economica, lotta alla disoccupazione e sviluppo del mercato del lavoro in primis. Questioni formidabili che richiederebbero decisioni e cambiamenti formidabili.
Forse dalle ceneri di questa crisi nascerà una nuova Europa. Forse in tempi neanche troppo lontani i cittadini degli Stati europei saranno chiamati a decidere se rinunciare a una porzione della propria sovranità a favore di un governo centrale, alleggerendo nel contempo i propri apparati nazionali. “Nel crogiolo di una crisi per l'Europa ancora non risolta, torna ad affacciarsi la necessità, la prospettiva, il disegno di una Europa che si faccia pienamente Unione politica, in tutte le sue implicazioni anche istituzionali”. Sono parole che Giorgio Napolitano ha pronunciato in occasione della recente visita a Roma di Christian Wulff, ex-presidente tedesco uscito poi di scena per gli scandali che hanno colpito la sua persona. Sappiamo che non è l’unico politico europeo travolto da scandali e corruzione. E qui mi sia consentita una riflessione finale.
Per riconoscere le esigenze della futura Europa sono necessarie una sensibilità e una visione, ma anche, e più semplicemente, una moralità, che oggi sembrano mancare alla maggior parte dei politici europei, troppo indaffarati nella cura dei propri interessi di bottega. Ed è questo il vero problema di fondo. La crisi in cui si dibatte il Vecchio Continente è, al di là dei meri conti economici, una crisi di uomini e di valori. Valori che la politica, quella più nobile, quella fatta dagli ideali che nascono nelle menti e nei cuori dei grandi uomini, non sembra al momento in grado di esprimere.