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- Pubblicato Mercoledì, 10 Novembre 2010 20:48
Hannah Arendt
Invito alla lettura
Die Politik wird uns immer gleichgültiger und scheint uns weit weg . Das Denken Hannah Arendts eröffnet uns einen Zugang zu dieser Problematik, da sie vergleichbare Fragestellungen behandelt. Allein schon die Schönheit ihrer Gedanken macht ihr Werk lesenswert.
Cosimo Carniani
Cogliamo l'occasione fornitaci dalle recenti elezioni europee, ennesima conferma del sempre più grave declino della politica, per invitare alla lettura di un’autrice che ha fatto del senso della politica, nell’epoca della sua miseria, uno dei temi centrali della sua pluridecennale riflessione: Hannah Arendt(1).
Nonostante l’opera di Hannah Arendt non abbia affatto bisogno di essere attuale per interessare e sedurre il pubblico, in quanto la profondità, l’importanza, ed anche la bellezza del suo pensiero l’hanno resa un classico, ciò che per definizione è sempre attuale, essa ci attrae anche in forza del suo stretto rapporto con alcuni dei nostri problemi presenti. È senz’altro anche per questo che l’opera di Hannah Arendt è stata oggetto di una vera e propria riscoperta: una rigogliosa fioritura di studi e saggi, nonché un sorprendente successo di pubblico, che hanno fatto addirittura parlare di "moda”(2).
Ciò non sorprende affatto, visto che il pensiero arendtiano è costituito in buona misura dal tentativo di restituire senso e dignità ad una parola, "politica”, che sembrava allora, come ora per noi, averli definitivamente perduti. Mutatis mutandis è lo stesso per noi: come è variamente dimostrato da fenomeni quali l’astensionismo, il crollo della fiducia nelle forze di governo, la crisi delle istituzioni, anche ai nostri orecchi la parola "politica” suona sempre più lontana, indifferente, invisa. Per questo il pensiero di Arendt ci è così vicino: pur se con premesse ed in circostanze diverse, ha cercato di rispondere ad un’esigenza che è anche nostra, la ricerca del senso autentico della politica, e della sua sorte in un’epoca in cui sembra aver perduto la sua dignità ed un qualsiasi senso. Questa profondissima crisi è innescata da quelle che Arendt definisce "le esperienze politiche fondamentalidel nostro tempo”, da cui la sua riflessione trae avvio, vale a dire il totalitarismo e l’arma nucleare. Questi figli della politica (la bomba atomica è concepibile solo nella sfera politica, sia perché il suo impiego può corrispondere solo a obiettivi che esclusivamente un soggetto politico quale lo stato può porsi, sia perché solo lo stato stesso può disporre delle risorse economiche, tecniche, organizzative, necessarie alla sua produzione) hanno mostrato all’umanità le catastrofi massime: l’estinzione atomica della vita e l’estinzione totalitaria della libertà, cioè di un’esistenza autenticamente umana, destando allora la speranza che "gli uomini si ravvedano ed eliminino in qualche modo la politica prima che la politica elimini tutti loro”. In ragione di queste sue potenzialità la politica sembra divenuta del tutto incapace di legittimarsi, votata all'autodistruzione (bomba atomica) e alla negazione di se stessa (totalitarismo, che in quanto estingue la libertà è la negazione della politica, fondata su di essa), e tutta la dimensione del politico ne risulta messa in discussione. Nella crisi della politica innescata dalle vicende novecentesche si consuma la dissoluzione delle categorie e delle idee della teoria politica tradizionale, che si dimostrano non solo insufficienti alla comprensione dell’accaduto, obsolete, ma ne vengono direttamente minate. Parlando del totalitarismo Arendt afferma: "i suoi stessi atti costituiscono una rottura con l’insieme delle nostre tradizioni; essi hanno mandato chiaramente in frantumi le nostre categorie politiche e i nostri criteri di giudizio morale. In altre parole, l’evento stesso, il fenomeno che cerchiamo - e dobbiamo cercare - di comprendere ci ha privato dei nostri stessi strumenti di comprensione”. Si pensi all’inapplicabilità di categorie e concetti fondamentali della teoria politica al fenomeno del totalitarismo: distinzioni quali quella fra governo legittimo e governo arbitrario, tra politica estera e interna; si pensi all'insufficienza delle categorie giuridiche e morali di fronte ai crimini dei regimi totalitari ("che senso ha il concetto di assassinio quando si è di fronte ad una produzione in massa di cadaveri?”), pienamente manifestatasi nei processi di Norimberga, dove i giudici si trovavano di fronte al compito apparentemente impossibile di punire chi non aveva infranto ma osservato la legge; allo sconcertante antiutilitarismo dei campi di concentramento, che ce li rende quasi incomprensibili(3). Si consideri poi, per venire alla bomba atomica, il principio di sovranità, tenendo fermo il quale le controversie fra stati sovrani possono essere risolte tramite la guerra, e che deve essere dunque abbandonato vista la potenziale "impossibilità” della guerra che scaturisce direttamente dall'enormità delle sue potenzialità distruttive(4); il rapporto tra potere militare e potere civile, del tutto compromesso, visto che l’esercito non sembra più in grado di garantire la difesa della popolazione civile, funzione su cui fonda la propria legittimità; la definizione della politica come mezzo per lo sviluppo della società e del benessere, che di fronte al rischio della guerra nucleare diviene amaramente ironica. Si deve allora intraprendere un radicale ripensamento della politica, sia per ragioni teoriche, sia, e forse primariamente, per ragioni pratiche, vale a dire per l’irrinunciabile esigenza di tentare di allontanare da noi gli spettri che la politica evoca. Inoltre, e questo è un punto fondamentale, Arendt ritiene che la tradizione del pensiero politico non sia del tutto innocente, ma abbia contribuito, con lo snaturamento della politica a livello concettuale prima ancora che concreto, a portarci alla disperata situazione con cui dobbiamo fare i conti. Ad ogni modo, se la politica non viene ripensata da capo non può che rimanere terribile ed insensata, ma non può essere abbandonata o negata, perché una rinuncia, una fuga dalla politica, finirebbe per aggravare la situazione, visto che proprio l’assenza di una dimenzione politica ha parte decisiva fra i fattori determinanti per l’insorgere del problema. Infatti svalutazione, miseria e pervertimento della politica procedono assieme, ed il rifiuto della politica non fa che alimentarne il processo degenerativo. Si pensi all’importanza che Arendt attribuisce al disinteresse per le questioni pubbliche nell’insorgere del totalitarismo, che trova terreno propizio laddove i citoyens siano tendenzialmente solo bourgeois, vale a dire individui chiusi nella loro sfera privata, lontani dalla sfera pubblica, riposanti nel loro particulare. È questa doppia esigenza a motivare la ricerca del senso autentico del politico, che si attua attraverso la decostruzione della tradizione del pensiero politico, cioè la considerazione del processo di formazione dei suoi concetti e delle sue idee, tesa a mostrare come tali passaggi non siano affatto obbligati. In quest’operazione Arendt intrattiene un serrato dialogo con il pensiero politico della polis, e perviene ad una determinazione del politico (das Politische) che si accorda essenzialmente con esso, almeno fino alla "rivoluzione” platonica, quanto sostanzialmente dissente da più o meno tutto il successivo pensiero politico. Questo è, schematicamente, caratterizzato dall’idea che il dominio, che chiama "potere”, sia il fenomeno centrale della politica, e con esso la relazione comando-obbedienza; che conseguentemente la sostanza dell'azione politica sia la violenza, come mezzo privilegiato di coercizione; che la politica sia un mezzo per un fine superiore, ora individuato nello sviluppo e nella prosperitàdella società, ora nella coltivazione di attività filosofiche o artistiche, ora nella semplice convivenza pacifica degli uomini. C’è politica laddove c’è verticalità nei rapporti, qualcuno che comanda a qualcun’altro, cosicché la questione centrale della politica è "chi comanda chi?”. La politica è allora sostanzialmente una lotta peril potere, definito come la capacità di imporre la propria volontà nonostante la resistenza altrui (Max Weber), e quindi giustamente assimilabile alla violenza, che diviene centrale per la caratterizzazione teorica della sfera politica (si pensi alla classica definizione weberiana dello stato come detentore del monopolio dei mezzi della violenza legittima o almeno ritenuta tale) e finisce per essere da ciò favorita nella sua concreta ingerenza nella politica. Basta rammentare invece la definizione arendtiana del potere (ripresa da E. Burke) come "agire di concerto” per rendersi conto dell’incolmabile distanza che separa la sua concezione del politico da quella tradizionale. Definire il potere, in quanto distinto dal dominio, dalla violenza e dall'autorità, come "agire di concerto”, significa estromettere questi dalla sfera politica vera e propria, che è quella in cui, al contrario, è la libertà a farla da padrone (se ci è passata l’ironia), in cui non ci sono comando e coercizione ma solo accordo e discussione: per Arendt il senso autentico della politica è costituito dalla libertà, e cioè l’opposto del dominio(5). Essere politici significa agire con parole e discorsi con e di fronte agli altri, intesi come propri pari. L’esperienza politica fondamentale è quella di far parte di una pluralità di singoli, con i quali si agisce, si discute, ci si persuade reciprocamente, al di là della violenza e del dominio. In questo dialogo si mostra il senso autentico della libertà (e così essa era intesa dai greci, prima che il cristianesimo la racchiudesse nell’interiorità e nella volontà, rendendola un insolubile problema filosofico), che non è situata in interiore homine, ma si dà solo nella sfera pubblica, nella scena in cui si incontrano gli altri. Infatti la libertà, oltre che nella capacità di iniziare qualcosa di nuovo, imprevedibile, consiste nella facoltà di potersi muovere fra i vari punti di vista che una pluralità esprime sul mondo che la accomuna, cioè nella possibilità di forzare la limitatezza della propria prospettiva ed aprire l’orizzonte attraverso l’opinione altrui, poter liberamente passare dall’una all’altra ed ad un’altra ancora. Il concetto di libertà è allora immediatamente connesso con quello di uguaglianza o meglio parità, e per questo il despota non è libero: per quanto comandi e venga obbedito senza discussione, si sottrae, in quanto superiore, alla discussione, all’apertura sul punto di vista dei propri pari e dunque alla possibilità, rimanendo così rinchiuso nella limitata determinatezza del proprio. E la relazione tra il despota ed i sudditi non è politica né apolitica, ma antipolitica, poiché impedisce per principio la condizione fondamentale della politica: la pluralità. Questo infatti racchiude tutto il senso di ciò che Arendt chiama "il politico”: comparire di fronte agli altri con discorsi ed azioni, mostrarsi nella sfera pubblica, godere della libertà che si mostra nel discutere con i diversi e nella capacità di iniziare qualcosa assieme a loro, cioè agire. Solo in questo apparire agli altri diveniamo persone (e il termine persona significava a Roma la maschera degli attori): quest'incontro è la vera sede dell’esistenza autenticamente umana, ciò che rende possibile all'uomo essere un chi anziché un che cosa. Politica è quella sfera, quella scena, nella quale gli individui possono assaggiare la "felicità pubblica” di cui parlavano i Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America e che costituiva il senso del bios politikos nella polis greca: la gioia di agire e discutere assieme ai propri pari, di giudicare ed esser giudicati, di scambiarsi opinioni e prospettive, in una parola, di essere liberi. La libertà non ha da essere intesa come concetto negativo: come non-proibizione o non-impedimento di attività quali ad esempio la libertà di parola, associazione, stampa e gli altri diritti civili; libero è colui che partecipa attivamente al governo, che agisce. Risulta chiaro quindi che e perché il pensiero di Arendt non possa che essere antitetico rispetto a quello tradizionale: i loro principi sono opposti. Arendt afferma che "il senso della politica è la libertà”, e conseguentemente i suoi concetti cardine sono la parità, le relazioni orizzontali (tra pari), la discussione e la persuasione, la frammentazione del potere (concretamente espressa nel principio federalista, che dovrebbe per lei in un certo senso essere, nella misura in cui fosse possibile, portato all’estremo), a limite l’anarchia, intesa letteralmente come assenza di governo, vale a dire di un’istanza superiore che sospende il dialogo ed impone il proprio comando; la tradizione, più o meno daPlatone a Foucault, passando attraverso Machiavelli, Hobbes, Rousseau, Marx, Weber, convinta che la politica si riduca ad una lotta per il potere inteso come dominio, ha per concetti cardine la disparità (se ci viene passato il termine), i rapporti verticali, l’autorità, il comando, l’unità del potere, il governo, la sovranità. Quest'incompatibilità, questa originalità del pensiero politico arendtiano, che si presenta come un’unica voce veramente stonata in un coro più o meno accordato, è alla radice delle molte incomprensioni e della troppo tarda ricezione delle sue idee, spesso messe frettolosamente da parte una volta bollate come utopiche o comunque troppo lontane dalla realtà. Ma proprio questo carattere del pensiero di Hannah Arendt, il suo prescindere da progetti concreti, il suo attestarsi al livello dei concetti e dei significati pur essendo innescato e strettamente riferito alla concreta realtà politica, contribuisce decisivamente a interessarci da vicino: anche chi non nutre più alcuna speranza nella politica e teme con tutto il cuore le sue catastrofi può trovare nelle sue pagine il senso autentico e la bellezza della politica. E' proprio perché la convinzione che "il senso della politica è la libertà” ci diviene sempre più estranea, che dobbiamo tornarvici. Ma, come abbiamo detto, non si vuol qui proporre la lettura dell'opera arendtiana per la sua attualità, come se anche i frutti del pensiero dovessero esser risucchiati nella turbinante brama di nuovo della nostra società, e potessero legittimarsi solo grazie al loro resistere al logorio del tempo, al loro legame col presente; o ancora per la sua utilità per comprendere il presente, o la teoria politica, o il novecento, cosa che peraltro nessuno mette in discussione, come se anche i frutti dell’attività più inutile che conosciamo, il pensiero, (parole di Hannah Arendt) dovessero legittimarsi in forza della loro utilità; si invita il lettore all'incontro con delle pagine sempre appassionanti e dense, scritte con penna brillante e certo mai troppo rispettosa delle regole accademiche, di non difficile comprensione ma cariche di quella suggestione che sempre il pensiero profondo suscita. Pensiero certo originale ed irriducibile a qualsiasi "scuola”, ma universalmente interessante in quanto tratta con questa originalità temi fra i più antichi e nobili della riflessione filosofica: la libertà, gli uomini, l’uomo.
Si invita il lettore ad una lettura per piacere.
NOTE
1 Nata a Hannover nel 1906 da famiglia ebrea della media borghesia, studiò filosofia con Bultmann, Husserl, Heidegger, Jaspers. All’avvento del nazismo si rifugiò in Francia, dove partecipò attivamente al trasferimento di giovani ebrei in Palestina. Nel 1941 emigrò a New York, dove insegnò a partire dal 1968 e rimase fino alla morte, avvenuta nel 1975. La sua opera è vasta, ma i suoi scritti maggiori sono: Le origini del totalitarismo, Che cos’è la politica?, Vita activa, Tra passato e futuro, La banalità del male (Eichmann a Gerusalemme),Sulla rivoluzione, Sulla violenza e La vita della mente
(2004-3 pag 19)