La Germania che non ti aspetti
Un cuore tedesco in un corpo brasiliano
„Sì, viaggiare“, sang damals die italienische Pop-Ikone Lucio Battisti. Macht es Sinn, bis nach Brasilien zu fliegen, um Deutschland kennenzulernen? Sì, das macht es! Im Süden des südamerikanischen Riesen schlägt ein deutsches Herz: Wie und für wen, das erfahrt ihr in diesem Artikel!
Daniele Verri
Parlando di Brasile, i primi pensieri che vengono alla mente sono il sole, il carnevale, la samba, la bianche spiagge del nord, la pelle scura e lucente delle donne carioca dal corpo sinuoso ed invitante e dai sorrisi irresistibili, un dribbling festoso come solo i grandi campioni della Selecao sono in grado di fare. Pac, finta a destra e giocatore a sinistra, avversario beffato ed io, come un bambino di fronte alla televisione, estasiato dall’eleganza del gesto tecnico e che per poco non cado dalla sedia, ingannato da un movimento che nonostante le innumerevoli ore passate col pallone sui più brutti campetti di Germania ed Italia mai riuscirò a ripetere...
Beh, certo il Brasile è anche questo. Ma non solo. Con una superficie di oltre 8,5 milioni di chilometri quadrati, il gigante sudamericano è il quinto paese al mondo per dimensioni. Sottopopolato, se vogliamo, almeno secondo gli standard europei, ma pur sempre un mezzo continente. Circa il 15% dei 190 milioni di brasiliani vivono nei distretti di San Paolo e di Rio de Janeiro, dove viene prodotto oltre il 50% della ricchezza del Paese: sono questi i cuori pulsanti di una nuova potenza economica già da alcuni anni, assieme a Cina e India, ospite fissa al tavolo dei potenti della Terra. Ma il Brasile è di più, molto di più di tutto questo. È un’impresa penso impossibile descrivere in un tempo accettabile tutti i volti di un Paese che colpisce ogni visitatore col calore della sua gente e del suo sole così deciso, con l’infinità di tonalità di colore dei suoi paesaggi, con la bontà della sua cucina semplice, con la sensualità della sua dolce lingua musicale, con l’allegria che trasuda da tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche in modo così drammatico da quelli tragici di morte e povertà. E quindi non ci proveremo nemmeno, nella speranza che queste poche righe introduttive abbiano svegliato in voi la voglia di andarci. Rileggete attentamente l’ultima frase e poi andateci. Non ve ne pentirete, qualunque sia la destinazione prescelta e qualsiasi il vostro obiettivo. Anzi, lasciate a casa gli obiettivi e andateci e basta: li troverete strada facendo.
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C’era una volta, nel bel mezzo del Sud del Brasile, in uno Stato chiamato Santa Caterina, un paese incantato dal nome di Sao Joao do Oeste. In questo paese, nonostante la Germania si trovasse a 16.000 km di distanza, i bambini erano biondissimi, la gente parlava uno strano tedesco e tutti erano amici di tutti… Davvero è necessario utilizzare la tipica formula introduttiva della fiaba per presentare un luogo incantato come Sao Joao, minuscolo punticino in quell’ultima protuberanza di terra incastonata tra Argentina, Paraguay e Uruguay che comprende tre dei ventisei Stati che compongono il Brasile: Il Paranà, il Rio Grande do Sul e Santa Caterina. Il nostro viaggio ci porta proprio in quest’ultimo, 700 km ad ovest della capitale Florianopolis, famosa per le sue spiagge bianche, altrettanto belle ma meno conosciute di quelle di Bahia o Maceió nel nord e quindi meta di un turismo prevalentemente nazionale; all’interno del Paese, a meno di 100 km dalla frontiera con l’Argentina, nel cuore di una regione che a partire dalla prima metà dell’Ottocento viene colonizzata da famiglie di contadini giunte dall’Europa alla ricerca di fortuna e di terra da lavorare. Incredibile la loro storia: ottenuta la concessione per un terreno, in barca risalgono il Rio Uruguay, uno di quegli enormi fiumi sudamericani che qui segna il confine con il Rio Grande do Sul e con l’Argentina prima di sfociare nell’omonimo Paese, attraccano al posto prestabilito e cominciano a disboscare e ad impiantare coltivi e fattorie. Con che fatica ve lo lascio immaginare: il clima è subtropicale, la vegetazione lussureggiante, la colonizzazione agli albori. Una vera epopea a cavallo tra due continenti. Le famiglie vengono dal Baden-Württemberg, dalla Baviera, alcune anche dall’Austria. Il clima favorevole all’agricoltura, i terreni fertili e la mancanza di prospettive in patria li convincono a rimanere. Dopo tanti anni, a causa della fondamentale mancanza di contatti e di mescolanza con altre razze, elemento tipico di altre regioni del Brasile (qui i neri tratti dall’Africa non sono mai arrivati) la comunità originale è rimasta intatta: sembra di stare in un qualche paesino delle alpi bavaresi.
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È incredibile, uno schiaffo a tutte le nostre nozioni e fantasie di Brasile: dove sono finite le natiche rotonde e dorate incastonate in tanga miniinvasivi ammirate e desiderate in tante dirette televisive del Carnevale di Rio sulla defunta Telemontecarlo?
La popolazione parla ancora tedesco. Non è di certo quello di Goethe e nemmeno quello di Günther Grass: si tratta del vecchio dialetto parlato al momento di emigrare, nel corso del tempo imbastarditosi con numerose parole in portoghese, che è e rimane l’unica lingua ufficiale. Al posto di schön si dirà scheeeen con la e lunga e aperta, al posto di arbeiten si dirà schaffen, al posto di fünf si dirà feeeenf proprio come con scheeeen, ma fattoci l’orecchio ci si intende perfettamente. Il tedesco scritto sarebbe chiedere troppo, nonostante il grosso arco all’inizio della discesa che dalla strada principale tra San Miguel e Itapiranga porta giù a Sao Joao ci ricordi che ci troviamo di fronte al Municipio mais alfabetizado do Brasil, il comune più alfabetizzato del Brasile. Ma alfabetizzato in portoghese appunto, e non in tedesco.
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San Joao e la sua regione hanno qualcosa di magico perché racchiudono in sé gli aspetti migliori sia della Germania che del Brasile: la voglia di lavorare, la sicurezza e l’affidabilità dell’una e la voglia di stare assieme, la simpatia innata ed il calore dell’altro. E sarà proprio il calore ad accompagnarci ed a fare da filo conduttore alla scoperta di questo curioso angolo di mondo. La regione è tuttora a carattere fortemente rurale, la gente vive d’agricoltura e d’allevamento; nelle fattorie si allevano mucche, maiali e polli: è normale avere un po’ di terra. Numerosi sono gli aviàrios, edifici lunghi e bassi nei quali trovano posto decine di migliaia di frangos, che vi rimangono circa 45 giorni durante i quali da pulcini si trasformano in robusti esemplari di circa 3-4 kg di peso. Mi sono offerto di aiutare Lidor, la nostra guida alla scoperta del dorato mondo del pollame brasiliano, nelle operazioni di prelievo da parte dell’azienda che poi li preparerà e confezionerà per il mercato europeo, americano e arabo. I camion arrivano di notte, nelle ore più fresche. Da loro scendono frotte di carregadores vocianti, gli uomini addetti alla cattura: giù le cassette vuote dal camion, sei polli per cassetta e via di nuovo sul camion. E uno sul camion in piedi con la gomma dell’acqua, nel caso specifico io, troppo imbranato per gli altri lavori, a bagnare dall’alto i polli in modo che sopportino il calore che già di primo mattino fa la sua apparizione puntuale. Un concerto notturno di starnazzi, piume e urla, che conclude un periodo di lavoro molto intenso per gli avicoltori e che ne precede un altro esattamente uguale.
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Numerosi anche gli allevamenti di suini, che vengono regolarmente riforniti di mangime dai camion cisterna che vediamo scorrazzare colorati sulle polverose strade della zona. Ogni giorno vengono caricate più volte tonnellate di mangime che vengono poi distribuite nei vari giri, come ci racconta Jerson, che questo mestiere lo fa da diversi anni e che con il suo bolide rosso ci consente di accompagnarlo a luoghi dal nome altisonante come Cristo Rei, Hervalsinho e Beato Roque. Si va e si consegna il mangime, scaricato attraverso un grosso tubo nei silos degli allevatori. Gli stessi sembrano soddisfatti, i loro maiali cantano pieni di aspettative e via che si riparte alla ricerca di nuovi grugni da sfamare.
Le mucche danno il latte, ma per farlo devono prima mangiare e poi essere anche munte. Entrambe le operazioni richiedono tempo ed impegno, come ci spiega Walter, proprietario di alcuni ettari di terreno dove le ultime rade case di Sao Joao segnano la fine del paese. Il mais, che qui si chiama milho, viene coltivato e raccolto per farne mangime per i bovini. Interi, enormi, rigogliosissimi e verdissimi campi di mais vengono triturati e raccolti in carri come l’uva durante la vendemmia: il loro contenuto viene vuotato tutto assieme in vere e proprie montagne, che vengono coperte con teli di plastica nera e terra in modo che né la pioggia né il sole possano danneggiare il prezioso mangime, nel corso dell’anno opportunamente razionato.
Passiamo un giorno con Jeane, la figlia di Walter, che cura la stalla di famiglia. Le mucche vengono fatte uscire dalla stalla al mattino, fatte pascolare di giorno e poi ricondotte alla stalla la sera. La mungitura avviene due volte al giorno, la mattina alle cinque e la sera alle sei, prima che arrivi il camion a prelevare il latte, con il quale vengono poi prodotti i latticini: l’industria casearia è fiorente e nel caso sulla vostra tavola doveste trovare i prodotti della ditta LacLelo, beh sappiate che per giungere a voi hanno ricoperto un tragitto non indifferente.
Oltre al latte sono altre due le bevande che qui spopolano: il cosiddetto chimarrao e la birra. Il primo è un tè di erbe che viene bevuto in compagnia in un’unica strana coppa di legno e pelle riempita per metà con una miscela di erbe tritate: vi si versa sopra acqua bollente, vi si infila di lato una specie di cannuccia di metallo schiacciata nella parte inferiore a forma di filtro, in modo che solo l’acqua ma non l’erba venga aspirata, e poi si beve da quella. Attenzione che brucia! Una volta finita l’acqua la coppa viene nuovamente riempita dall’immancabile bottiglia termica colorata e via che si passa il bicchiere al prossimo bevitore. Ammetto che ci va fatta un po’ la bocca e che bere acqua bollente a mezzogiorno con 40 gradi di temperatura (da consumarsi esclusivamente in veranda o all’ombra, astenersi perditempo) non sia tipico della nostra cultura e nemmeno di quella tedesca, ma è un’usanza alla quale ci si abitua in fretta, forse giocoforza: le famiglie lo bevono insieme la mattina prima di lavorare, a mezzogiorno prima di pranzo, dopo pranzo, la sera prima di cena, dopo cena, nei pomeriggi non lavorativi, se si effettua una gita la bottiglia termica non manca mai, insomma sempre quando non si fa qualcosa di specifico. In un paesino come Sao Joao dove non è che succedano cose incredibili, e dove quindi le cose fresche da raccontarsi non sono moltissime, è incredibile quanti argomenti la gente riesca a trattare nel corso di una giornata! Il chimarrao pare aiuti parecchio.
Una cosa che accomuna le due sponde dell’Atlantico è la passione sfrenata per la birra, rigorosamente bionda, fredda, mi raccomando la schiuma, un vero elisir dopo il lavoro e nel weekend: difatti una birra viene chiamata uma gelada. La birra è più leggera che in Baviera e va giù come l’acqua. Simpatica è l’usanza di comprare una bottiglia che poi viene divisa fra tutti. Nessuno compra una birra solo per sé: finisce la mia ne compri una tu, e così via finché non si va a casa. Le bottiglie, per tenerle al fresco, vengono infilate in sgargianti contenitori di plastica o di polistirolo con la pubblicità delle varie marche. Certo che con la sete atavica che la gente del luogo si è portata dalla Germania, difficilmente una birra diventa calda… Una lotta all’ultimo sorso tra il sole e la sete, nella quale quest’ultima ha sempre la meglio.
Ma come si fa a bere senza mangiare? Impossibile anche in Brasile. La birra chiama la carne alla griglia, della quale è compagna inseparabile. Se in Europa spopola il maiale in tutte le sue forme e variazioni, qui è la carne bovina a farla da padrone. E noi gliela lasciamo fare, perché un sapore del genere è assolutamente introvabile da noi. La gente alleva le proprie mucche nutrendole col mais dei propri campi, le porta fuori e dentro dalla stalla mattina e sera, le vede crescere e le cura di giorno in giorno. E poi se le mangia. Succulenti pezzettoni di carne vengono infilati in lunghi spiedi chiamati espetos, che a loro volta vengono inseriti nella churrasquera, la griglia in muratura immancabile in ogni abitazione. Sulla legna ardente (il carbone non serve, la legna abbonda dappertutto) la carne cuoce per circa un’ora, prima che il churrasquero, l’addetto alla griglia, estragga un espeto e lo porti di piatto in piatto: ogni commensale può cosi tagliare col proprio coltello la porzione desiderata direttamente dall’enorme pezzo fumante. Geniale come il sistema che chiameremo a bicicletta e che consente una perfetta cottura: tra il manico e l’inizio della lama ogni spiedo è dotato di una corona dentata che si inserisce in una catena azionata da un motorino elettrico. Scorrendo, la catena fa ruotare su se stessi gli spiedi e con loro la carne, che si cuoce uniformemente senza mai bruciarsi o seccarsi. Certo si mangia anche carne di maiale, oppure ottime salsicce che hanno poco dei würstel tedeschi e tanto delle care salsicce modenesi protagoniste di tante mie domeniche estive in gioventù, oppure carne di galletto ruspante così diversa da quella del pollo di allevamento della cui vita ingloriosa vi raccontavamo prima, ma nulla è così gustoso, così morbido, così saporito come la carne di gado, di bovino: ottima in tutte le sue espressioni, che sia la famosa picanha, il filetto senza un filo di grasso, lo speck, bello grasso, o le costinhas, le costolette, irresistibili, procaci, mendaci e anche fallaci, ultimo ed insuperabile scoglio ad ogni proposito di alimentazione vacanziera moderata. E come si fa? È come incontrare Heidi Klum inspiegabilmente ben disposta nei propri confronti ed invece andarsene a letto ripetendo “Avevo detto che questa sera sarei andato a letto presto…” Non esiste! Una tira l’altra! Anche perché praticamente non finiscono mai! In quanti siamo a pranzo? In dieci? Allora facciamo dieci chili di carne! Siamo in venti? Facciamone venti! Sempre conto pari! Ci metti un po’ d’insalata, di riso bianco, di torte dolci che vengono consumate con la carne a mo’ di pane, di cetrioli, d’insalata di patate, di pomodori, un freezer pieno di birra, un numero variabile di bocche voraci e stomaci capaci, una qualche bottiglia di refrì (le bibite per i più giovani) ed il gioco è fatto! Ah non dimentichiamoci dei palitos, gli stuzzicadenti, perché con tutta questa roba qualcosa ad intralciare il lavoro del nostro dentista rimarrà per forza.
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Dopo una grande abbuffata del genere la digestione ha un ruolo vitale, nel senso che garantisce la sopravvivenza della specie. Il modo preferito dai brasiliani è giocare a calcio. Dimentichiamoci i vari Pelé, Ronaldinho e Robinho. I neri e i meticci sono qui davvero rari. Porto Alegre, con l’Internacional ed il Gremio a dividersi equamente i tifosi locali, che vengono chiamati colorados o gremistas a seconda della fede, è distante ben 600 km, e con lei il calcio che conta. Qui lo sport è solo locale, ma il livello medio è davvero niente male: la gente è in forma, le capacità tecniche innate e la voglia di divertirsi inesauribile. Il futbol in Brasile è gesto tecnico, ricerca del gol, bellezza estetica. Ci sono quattro o cinque bei campetti in giro per il paese sui quali è possibile giocare, più quello della società calcistica Alianca, con regolare settore giovanile, prima squadra e amatori.
Ed è proprio ad una partita dei seniores che assistiamo un pomeriggio dopo un’abbuffata colossale. Beh, il passo non è più quello di una volta, la voglia di sfiancarsi sotto un sole implacabile e sull’erba così robusta rispetto a quella europea ci sarebbe anche, ma con lei gli anni. Il che riduce notevolmente il ritmo partita, ma i padri di famiglia col pallone tra i piedi ci sanno fare. Eleganti stop di petto, giocate di prima intenzione, finte di corpo, punizioni dalla traiettoria malandrina. La gara finisce con un rotondo 6-0 per i rossoneri locali. E sarà l’inizio di una serata indimenticabile. La partita è l’ultima di campionato e precede così la festa di fine stagione. I ragazzi sono carichi, forti dei sei gol e della voglia di stare assieme. E via che scatta il churrasco, il secondo della giornata! Temprato da alcuni giorni di duro allenamento il mio stomaco risponde presente ed è pronto a sfidare chiunque pensi che un italiano mangi solo pasta e pizza. Le condizioni climatiche giocano improvvisamente a mio favore: il caldo afoso del pomeriggio lascia il posto ad una brezzolina accattivante che stimola fame e sete. La legna arde da un pezzo, la carne è quasi pronta. Si attende solo il fischio d’inizio.
E qui il Brasile mi conquista definitivamente con quella manifestazione del suo calore che nel corso di questo viaggio ci ha affascinato più di tutte le altre: quella della sua meravigliosa gente. A me, fotografo improvvisato di un pomeriggio calcistico, viene immediatamente regalata una maglietta della squadra che vale il titolo di membro ad honorem della società. Gli abbracci e le prese in giro, in portoghese ed in tedesco, si sprecano. Subito sono l’italiano, prototipo ultimo di amico europeo. Non appena capiscono che parlo tedesco la conversazione si fa ancora più intensa: tutti vogliono sapere tutto della Germania, Paese mai conosciuto, sempre sognato e perennemente nel cuore. Come si vive, come si lavora, come sono le città. Porto al tavolo dove sono stato costretto a sedere sei misere birre, come segno di gratitudine per la maglietta e per l’accoglienza fantastica: “E che non si dica che gli italiani non pagano da bere!” Non l’avessi mai detto. La mia frase goliardica e scherzosa si trasforma in un dolce boomerang: da quel momento per me non c’è più sosta. Un bicchiere di birra qua, un altro là, carne di mucca qui, costolette là, birra, carne, carne, birra, in un vortice calorico (tanto per stare in tema…) assolutamente inarrestabile. In una serata conosco praticamente la metà degli abitanti e non ce n’è uno che non mi offra qualcosa. E qui devo ringraziare il destino che dieci anni fa mi ha portato a Monaco, perché senza tutta la helles bevuta nell’ultimo decennio non ce l’avrei mai fatta ad uscire vivo da quella bolgia di pura allegria. Ecco, pura. Come i suoi protagonisti, gente semplice attaccata alla vita, quella di tutti i giorni, senza neurosi e senza distorsioni.
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Il fatto che sia sopravvissuto ha avuto una certa importanza, oltre che per me in senso stretto. Con alcuni ragazzi conosciuti quella sera stiamo organizzando un gemellaggio tra una squadra di Monaco e l’Alianca, una sorta di Sao Joao on tour che nelle nostre speranze dovrebbe portare in un futuro non lontano diverse famiglie brasiliane a visitare quella che per loro è la patria lontana e mai dimenticata, anche se mai conosciuta.
Ai nostri amici lettori che al termine di questo articolo chiaramente di parte mantengano tuttora, come diceva Primo Levi, un salutare coefficiente di dubbio, non rimane che una cosa da fare: andarci e vedere di persona. Troveranno come noi la Germania che non ti aspetti.
Homo homini lupus….anche in campagna
Il percorso di „formazione“ del perfetto emigrante australiano
Das Leben der Menschen, die außerhalb des eigenen Landes Arbeit suchen, ist nicht immer einfach. Sogar in toleranten und hoch entwickelten Ländern wie Australien erweist sich die Integration als oft sehr problematisch.
Sasha Deiana
“ROVIGO – Anche in Polesine gli immigrati si preparano a incrociare le braccia il primo marzo, giornata nazionale di sciopero contro il razzismo, con iniziative pubbliche e lo stop a qualunque spesa per un’intera settimana. Nelle scorse settimane a Rovigo sono nati ben due comitati promotori, formati da cittadini stranieri, associazioni attive nel settore immigrazione e diritti, semplici cittadini sensibili. L’obiettivo è comune: fare sì che una parte della città si fermi, per fare capire come sarebbe la nostra società se venissero a mancare gli immigrati. Dopo i fatti di Rosarno e il moltiplicarsi di episodi di razzismo, la decisione di reclamare dignità: «L’unico modo per farci notare e rispettare è quello di toccare le tasche», spiegano i promotori del Comitato Primo Marzo Rovigo”. (Tratto dall’articolo Gli immigrati: «Pronti allo sciopero» di Francesco Casoni, Corriere della Sera, 11 febbraio 2010).
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Una delegazione della commissione per le libertà civili, giustizia e affari interni del Parlamento europeo si è recato a Rosarno dal 15 al 17 febbraio: lo scopo della visita è stato quello di revisionare le norme comunitarie in materia di immigrazione e lavoro e chiedere maggiori garanzie per i braccianti immigrati che popolano le aree rurali del nostro Paese.
I fatti di Rosarno risalenti ad alcuni mesi fa hanno fatto discutere tutta l’Italia mettendo un punto interrogativo su quello che è il comportamento di molti proprietari terrieri, i quali legittimano precarie condizioni di vita e salari discutibili agli immigrati che raggiungono l’Italia, soprattutto dalla vicina Africa ed Est Europa, per lavorare nelle nostre campagne.
In Trentino Alto Adige sono stati messi a disposizione decine di alloggi moderni e funzionali adibiti esclusivamente a cittadini comunitari e non, che si dedicano stagionalmente alla raccolta della frutta (prevalentemente mele), nelle vallate trentine. I proprietari delle abitazioni hanno l’obbligo di affittare queste dimore, probabilmente piccole ma pulite e assolutamente accessoriate, solo alla categoria sopra indicata.
A circa 10.000 Km dal verde, fresco e rigoglioso Trentino Alto Adige c’è l’Oceania, uno dei continenti che forse più affascina gli europei per la sua modernità, correttezza nei rapporti umani, multietnicità e convivenza eterogenea, spesso associato all’eldorado per eccellenza nell’immaginario collettivo.
Forse non tutti sanno, però, che una condizione necessaria o meglio obbligatoria per un qualsiasi immigrato europeo, italiano, tedesco, svedese o quant’altro che decida di trattenersi in Australia per un periodo superiore ai 12 mesi è quella di lavorare per almeno 88 giorni in una struttura riconosciuta a livello governativo in qualità di bracciante diretto (contadino), addetto alle costruzioni (muratore), pescatore o ricercatore di perle.
Molti giovani che sono interessati a estendere il proprio visto si vedono quindi costretti ad abbandonare le città e recarsi in una delle aree previste dal governo australiano (lontane solitamente centinaia di chilometri dai centri urbani abitati) per dedicarsi ai lavori sopra elencati.
Sembrerebbe un’iniziativa assolutamente interessante, innovativa e giusta, letta così; eppure la situazione è assai più complessa.
Il farmer, cioè il proprietario della fattoria e della campagna presso cui il o la giovane offriranno servizio, non ha alcun obbligo di pagare il lavoratore. I suoi unici compiti sono quelli di provvedere ad un accomodation e a un pasto quotidiano.
Il nostro agricoltore solitario, che ha trascorso tutta la sua esistenza in una desolata fattoria lontana almeno 250 km dal primo vero centro abitato e circa 30 km da un comunissimo supermercato, spesso ha una visione della modernità grottescamente distorta, ma sa perfettamente come sfruttare la manodopera, non a basso costo, ma gratis! Servendosi quindi delle associazioni affiliate al governo australiano può facilmente beneficiare di lavoratori “disperati” offrendo loro il minimo indispensabile per la sopravvivenza.
Molti se la cavano con un caravan datato, maleodorante, impolverato e sudicio, naturalmente in lamiera che sotto il sole estivo dell’Australia può raggiungere anche i 40-45 gradi con vista, se si è fortunati, sul pollaio.
I servizi igienici, naturalmente, nel caravan non ci sono quindi il consiglio che spesso viene dato dai proprietari ai lavoratori “disperati” (speranzosi nell’estensione del visto) è di arrangiarsi come si può, ossia fare i propri bisogni nei vasti spazi esterni ed incolti che la fattoria offre. Naturalmente per le cose più urgenti vi è anche una toilette-latrina interna alla baracca in cui il contadino vive.
Fino a qui va tutto relativamente bene: il caravan si può pulire, la toilette preoccupa un po’, ma ci si può organizzare.
I volti cominciano a essere più crucciati quando arriva l’ora dei pasti e la necessità assoluta di abbeverarsi. In molti stati australiani uno dei problemi maggiori è la siccità, l’acqua quindi non va assolutamente sprecata né per lavare se stessi (se non in maniera assolutamente sbrigativa e sommaria), né per le stoviglie, figuriamoci per pulire casa o tirare lo sciacquone delle toilette. Naturalmente, però, non si può vietare ai lavoratori di bere. L’acqua che giunge ai rubinetti solitamente proviene da grossi bacini interni alla fattoria spesso parzialmente secchi durante la stagione estiva. L’acqua viene filtrata e successivamente pompata attraverso le tubature sino ai rubinetti arrugginiti della baracca: il colore che la caratterizza è giallastro, il sapore rancido, senza dimenticare la singolare sensazione di impolverato che lascia in bocca una volta ingoiata. Il supermercato più vicino dista decine di chilometri quindi acquistare acqua in bottiglia è pressoché impossibile, soprattutto perché spesso il lavoratore “disperato” non possiede un mezzo proprio.
Il farmer sa gestire perfettamente i propri soldi e risorse; diversamente da quanto si è soliti immaginare egli è poco generoso quindi i pasti sono a base dei prodotti offerti dalla propria terra, difficilmente vengono acquistati in negozio. Il che non sembra nemmeno tanto male, il problema è che spesso egli nutre un’inquietante tolleranza o addirittura indifferenza nei confronti di insetti e ovipari che comunemente popolano la sua casa e il giardino, tra cui larve, scarafaggi (detti comunemente cockroach) e formiche. Queste ultime in Australia possono raggiungere delle misure inimmaginabili per un europeo, più lunghe di una falange, con busto grosso e nero, velocissime e aggressive. Non è inusuale trovarsele nel piatto durante la cena, ed alla vista disgustata ma timidamente compiacente del lavoratore “disperato” il farmer sdrammatizza spiegando scherzosamente che la formica rende più piccante la pietanza.
Ultima difficoltà, ma non meno importante, che deve affrontare il neo coltivatore è la tremenda solitudine. Un farmer solitamente ospita uno o al massimo due persone, non di più. Essendo stato abituato da sempre ai lunghi silenzi della campagna egli si sente a proprio agio con la bocca chiusa, mentre il giovane novellino fa per la prima volta i conti con i propri pensieri per ore e ore sia durante il lavoro che durante le pause. Per quanto possa apparire patetico, il rumore del vento è l’unica magra consolazione a cui quest’ultimo si deve saper abituare.
La differenza tra un cittadino europeo in Australia con l’aspettativa di estendere il visto ed un immigrato comunitario o clandestino extracomunitario che si reca in Italia con ambizioni di vita migliori non è molto diversa. Forse il giovane che esperisce la difficile prova delle fattorie australiane ha la possibilità, male che vada, di tornarsene a casa, l’immigrato clandestino che tenta la fortuna in Italia no, ma le condizioni di vita e lavoro sono drammaticamente simili se non addirittura peggiori: non ricevere un salario è come rimanere senza terra sotto i piedi.
Non si pensi che la mole di lavoro sia diversa: un lavoratore “disperato” raccoglie da solo giornalmente circa un quintale o un quintale e mezzo di frutta e il pomeriggio passa il tempo a suddividerla e impacchettarla sotto potenti luci (per rendere visibili le ammaccature) che si sommano alla calura estiva delle immense distese australiane.
Il sistema è stato creato perfettamente ed ha sviluppato un business nel settore dei lavori “che nessuno vuol più fare” sconvolgente. Celate dietro l’escamotage “dell’esperienza culturale”, queste associazioni vincolate al reparto dell’immigrazione australiana, danno la possibilità a farmer senza scrupoli di sfruttare fino all’osso ragazze e ragazzi volenterosi senza offrire loro un soldo e facendoli vivere in situazioni di indecente degrado e disagio, permettendo loro di ottenere così un profitto inimmaginabile durante l’arco della stagione lavorativa.
Questo sembra essere un vizietto che caratterizza i paesi di origine britannica da un bel po’.
Gli anglosassoni da sempre hanno incrementato la propria economia con lo sfruttamento degli extracomunitari ed è inutile dire che Inghilterra, Stati Uniti, Sud Africa, Canada e Australia siano le civiltà più sviluppate al mondo.
Forse lentamente anche il nostro piccolo Belpaese, seguendo il modello anglosassone, sta iniziando a mettersi in carreggiata emancipandosi economicamente, paradossalmente, valorizzando e sfruttando le potenzialità offerte dal fenomeno dell’immigrazione al fine di trarne benefici e profitti, infischiandosene delle conseguenze umane da esso derivate.
Aldegonda di Baviera e Francesco V d’Este
Un’unione oltre la ragion di Stato
1842 heirateten in der Allerheiligenkirche am Kreuz in München Franz Ferdinand von Österreich-Este und Adelgunde Auguste Charlotte von Bayern. Die Hochzeit war nicht nur politisch motiviert, sondern sie war auch von Liebe geprägt.
Giuseppe Muscardini
L’esperienza umana di Silvio Pellico, le sue privazioni allo Spielberg, gli oltraggi di una prigionia lunga ed esasperante, modificarono le prospettive e la stessa personalità del patriota torinese. Rinchiuso in se stesso, pensieroso, disilluso negli alti ideali che lo avevano animato, alla fine degli anni Trenta Pellico accettò l’incarico di bibliotecario presso i Falletti di Barolo, nella cui casa si trasferì per restarvi fino alla morte. La filantropia, le buone letture e il riposo impostogli da una salute cagionevole furono da allora le sue occupazioni, ma non prima di aver dato alle stampe i Doveri degli uomini e due volumi di liriche.
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Allontanandosi dalla politica e inseguendo le sole rivoluzioni che nascono dentro le anime, Pellico era persuaso che l’amore per il prossimo fosse il solo ideale per cui valesse la pena di lottare. Non la rassegnazione, la resa, ma la volontà di concepire l’esistenza come qualcosa di ugualmente grandioso, malgrado le storture sociali e le sofferenze; posizione, questa, derivante dal suo progressivo avvicinamento alla Chiesa Cattolica.
Ma più delle motivazioni religiose, fu l’amore per la verità a farsi strada: la tolleranza, l’incuria per le calunnie, divennero le difese di un uomo fiaccato dalla prigionia, ma ancora prosciugato nell’intimo. La scelta di una filosofia conciliante è riscontrabile in una lettera del 6 gennaio 1843 indirizzata al marchese Cesare Campori di Modena, Ciambellano del Duca Francesco IV di Modena. In precedenza lo stesso Campori lo aveva informato di uno spiacevole dissapore con Pier Alessandro Paravia, letterato di vaglia del periodo risorgimentale. La risposta di Pellico è tutt’altro che scivolosa: induce il marchese a trarre cristianamente da ogni critica i migliori vantaggi. L’atteggiamento non è passivo, ma dettato dall’acquisita convinzione che non serva difendersi dalle accuse gratuite e che la forza della coscienza, insieme alla buona fede, sia sempre la più lodevole virtù degli uomini saggi.
Eppure i rapporti fra Cesare Campori e Pier Alessandro Paravia appena due anni prima erano di affabilità. Si ha notizia di una precedente corrispondenza tra i due dove il tono è cordiale e amichevole. Si legge in una lettera da Venezia del 21 ottobre 1841: Mio caro Marchesino, Le scrivo una sola riga per dirle che ebbi oggi la Sua cara lettera. Mi ralegran le nozze del Suo Principe Ereditario; per la quale occasione son certo che la Sua Musa non tacerà. Suo aff.mo Servo ed amico. P.A. Paravia. Venezia, 21 8bre 1841.
Interessante la citazione alle nozze del Principe Ereditario, evento a cui il Ducato dedicò nel corso del 1842 un gran numero di manifestazioni celebrative. È del matrimonio fra l’arciduca Francesco d’Austria d’Este con Aldegonda Augusta Carlotta di Baviera che si parla, annunciato nel foglio ufficiale di Modena il 26 febbraio 1842, poi celebrato il 30 marzo dello stesso anno a Monaco di Baviera nella Allerheiligenkirche am Kreuz (Chiesa di Ognissanti, oggi in Kreuzstraße 10). I due si erano incontrati a Modena nel 1839, nel periodo in cui Ludovico I di Baviera, genitore di Aldegonda, aveva reso una visita al Duca Francesco IV d’Este, padre del giovane principe ereditario Francesco Ferdinando.
Tra i due giovani, sedici anni lei e venti lui, si stabilirono presto le condizioni ideali per consentire ai rispettivi regnanti di pensare seriamente ad un’unione matrimoniale che legasse la dinastia Estense a quella Bavarese. Fu il canonico Giuseppe Forni, maggiordomo di primo grado del principe ereditario Francesco d’Este, a recarsi a Monaco l’8 marzo del 1842 per chiedere in forma solenne al Re di Baviera la mano della principessa. La ragion di Stato fu tuttavia favorita dai sentimenti autentici subito nati fra i due giovani, dettati da una stima e da un rispetto reciproco che non si esaurirono nel corso dei successivi trentatré anni di matrimonio. L’iconografia ufficiale allude in modo palese agli amorosi sensi che caratterizzarono la loro unione, restituendoci in una litografia del tempo un bel ritratto dove risalta la regale serenità di entrambi. La stessa postura è conservata dagli sposi nel recto in una medaglia coniata nel 1842 in occasione del matrimonio; si legge nell’iscrizione: francisco atest. archid. avstr. dvci mvtin. destinato et aldegonda bavarica favsto connubio ivunctis xxx mart. a. mdcccxxxxii. Fuori dalle solennità e dalle celebrazioni, un’immagine fotografica realizzata nel 1870 ritrae Aldegonda di Baviera e Francesco V nella quiete domestica degli ampi spazi di Corte, lei intenta a leggere, lui in divisa militare che a braccia conserte guarda in direzione del fotografo, tale Giuseppe Fantuzzi di Reggio Emilia.
Una verosimile raffigurazione di Aldegonda di Baviera del primo periodo modenese è oggi conservata presso la Galleria Estense di Modena, opera di Adeodato Malatesta. Bella, occhi luminosi, incarnato roseo e pelle di seta, la giovane donna rivela nel volto i tratti di chi vive con letizia la sua nuova condizione di moglie in una terra straniera ma ospitale. Una terra che qualche giorno dopo il matrimonio celebrato a Monaco, l’accolse con grandi festeggiamenti durati a lungo. Per l’occasione furono allestite a Modena e a Reggio Emilia sfarzose sfilate di carri che si protrassero fino agli ultimi giorni di maggio. Nelle diffuse illustrazioni dedicate ai festeggiamenti, spicca per imponenza il cosiddetto carro diurno bavarese, un grande carrozza sormontata da baldacchino ricostruita in onore di Aldegonda dal Conte Agostino Paradisi e su cui la sposa prese posto insieme al Duca per i cortei lungo le vie della città. E sempre in suo onore fu eretto a Reggio Emilia un obelisco alto 17 metri e 75 centimetri, ancora ben conservato nell’attuale Piazza Gioberti. Recuperato quarant’anni dopo il significato celebrativo dell’obelisco in funzione risorgimentale, sopra il basamento oggi si legge: Questo monumento eretto per le nozze di Francesco V d’Este con Aldegonda di Baviera fu per voto di popolo consacrato ai primi martiri della libertà. MDCCCXLII – MDCCCLXXXII.
Il principe ereditario successe al padre Francesco IV quattro anni dopo il matrimonio con Aldegonda, che acquisì il titolo di Duchessa di Modena. Le insurrezioni risorgimentali, le legittime pretese indipendentiste dei modenesi, la perdita dell’unica figlia Anna Beatrice, nata appena un anno prima, i tragici fatti della guerra, la fuga da Modena nel 1859, consolidarono nel tempo l’unione fra i due regnanti fino alla scomparsa di Francesco V, avvenuta a Vienna alla fine del 1875. Aldegonda gli sopravvisse per altri quarant’anni, trascorsi fra Vienna e il Castello bavarese di Wildenwart. Poi la morte la colse a Monaco il 28 ottobre 1914.
Nelle sue righe Paravia lasciava presumere che la Musa del Ciambellano di Corte Cesare Campori non avrebbe taciuto per il solenne matrimonio del Duca, salutando l’evento con versi in lode della principessa. In realtà il componimento ufficiale, intitolato All’augusta Aldegonda, R. Principessa di Baviera, Sposa all’Altezza Reale Francesco d’Este Arciduca d’Austria, Principe Ereditario di Modena, si ascrive ad un autore che si mascherò dietro lo pseudonimo di Mauro Jattice. Il componimento ha il seguente incipit: Or che ti guida un Angelo / Presso all’Azziaco Trono / L’Arti essi pur desiano / Di presentarti un dono. / E un’altra rosa aggiungere / Al tuo gemmato crine: / Non la sdegnar, la Grazia, / Ride coll’Arti affine. I versi, dettati dal sentire poetico di un uomo di Corte, forniscono di Aldegonda una descrizione certamente enfatica ed encomiastica, ma nella quale si scopre una palese consonanza figurativa con il citato ritratto di Adeodato Malatesta conservato alla Galleria Estense di Modena. Una rosa è dipinta sul lato sinistro dell’ovale del bel viso di Aldegonda. Il fiore è fissato ai capelli, che si intendono gemmati perché impreziositi dalle pietre incastonate nel diadema.
Alla ricerca della Terra Promessa
Una storia di bambini contesi, tra Monaco di Baviera e Milano
Die Trennung von Marinella und Tobias schien wie jede andere Trennung zu verlaufen. Als jedoch das Jugendamt in Erscheinung tritt wird alles kompliziert. Die Leidtragenden sind vor allem die beiden Kinder, die Gegenstand einer bitteren rechtlichen Auseinandersetzung zwischen München und Mailand werden.
Pasquale Episcopo
Monaco di Baviera e Milano hanno in comune l’iniziale e molto altro. La ricchezza ad esempio. Milano è una città industriale tra le più note al mondo, centro fieristico di importanza internazionale. La stessa cosa vale per Monaco. I due capoluoghi primeggiano anche nell’offerta culturale e artistica. Vantano importanti musei e pinacoteche che ospitano raccolte di notevole valore. Con la Scala e il Nationaltheater, sono sede di grandi eventi musicali. Paragonabili anche l’estensione territoriale, la dimensione demografica e la ubicazione geografica. Entrambe le città sono a ridosso delle Alpi, vicino a laghi e montagne di bellezza straordinaria. Queste caratteristiche fanno di Monaco e di Milano due luoghi dove la qualità della vita ha un livello assai alto. Naturalmente tra le due città esistono anche differenze considerevoli, prima tra tutte la lingua e con essa la cultura e la mentalità. Ma le differenze, per chi crede nella biodiversità e fino a prova contraria, sono da considerarsi un ulteriore valore aggiunto.
Tra Monaco e Milano negli ultimi tre anni si è consumata una storia singolare e inquietante che non basta in sé a rappresentare una prova contraria del grado di civiltà raggiunto dalle due città e tuttavia rappresenta un indizio di quanto, nonostante le apparenze, le cose possano essere molto diverse dalla realtà. Un indizio che apre uno squarcio su questioni delicate la cui conoscenza è importante se si vuole capire quanto lavoro c’è ancora da compiere per costruire l’Europa e farne un luogo di civile convivenza. I fatti di cui parleremo riguardano una famiglia mista, padre tedesco, madre italiana e i loro due figli, di undici e sette anni, bambini con due culture e due lingue. Che bello, penserete. Sono questi due bambini, le loro due lingue e queste due città che svolgono un ruolo centrale nella vicenda. Questi due bambini sono stati oggetto di un reato il cui nome è “sottrazione internazionale di minori”. Per ben due volte la madre li ha portati via dalla città di Monaco. A Milano lo hanno fatto i carabinieri. Con la forza. Dunque “sottratti” tre volte. Almeno finora. Nel momento in cui scriviamo forse sono in Polonia, ma nessuno sa esattamente dove.
Prima di addentrarci nei particolari della vicenda desideriamo precisare che ogni riferimento, che si farà a persone reali e fatti accaduti, sarà voluto e necessario. Il motivo della precisazione è presto detto. È la madre dei bambini che ha voluto raccontare in prima persona mettendo in moto una vera campagna di informazione verso i mass media. Con dichiarazioni, proteste e denunce, ha creato molto rumore intorno alla sua vicenda riuscendo a mobilitare le coscienze della gente, ma anche sollecitando ed auspicando per lei, per i figli e per l’ex-marito una soluzione definitiva al loro dramma. Con questo articolo intendiamo dare un contributo a quell’auspicio. Riporteremo i fatti occorsi attingendo alle svariate interviste rilasciate da questa donna e madre italiana che giornali e televisioni hanno portato all’attenzione del grande pubblico. Riporteremo anche il punto di vista del suo ex-marito, così come appare nell’unica intervista concessa ad un giornale italiano. Descriveremo il ruolo svolto dallo Jugendamt. Cercheremo poi di comprendere il quadro giuridico internazionale e di descrivere il ruolo giocato dalle istituzioni. Ci cimenteremo infine in un tentativo di analisi critica della situazione presente e azzarderemo una previsione sul possibile epilogo della vicenda.
La storia
Marinella C. e Tobias R. si conoscono e mettono su famiglia a metà degli Anni novanta. Tobias è di Monaco e qui i due stabiliscono la propria residenza. Vivono presumibilmente felici per alcuni anni. Dalla loro unione nascono due bambini, Leonardo e Nicolò. Poi qualcosa si incrina. Nel mese di novembre del 2006 si separano. Il tribunale di Monaco stabilisce la residenza dei due bambini presso la madre. Tobias può vederli ogni due fine settimana e trascorrere con loro metà delle vacanze. Entrambi i genitori mantengono la potestà genitoriale. All’inizio del 2007 Marinella riceve la prima visita dello Jugendamt. Successivamente queste visite si intensificheranno. Nelle sue interviste Marinella parlerà dei modi e dei metodi dei funzionari dell’ufficio. All’inizio del 2008 la ditta in cui lavora decide di chiudere l’ufficio di Monaco e le propone il trasferimento nella sede di Milano. Un’offerta che Marinella vorrebbe accettare. Ne parla con Tobias impegnandosi a portargli i bambini una volta al mese. Si rivolge al tribunale per chiedere l’autorizzazione al trasferimento e per poter regolare le visite del padre. Lei e i bambini vengono nuovamente interrogati dallo Jugendamt. Primavera 2008. La presenza dello Jugendamt nella vita dei due genitori e dei loro bambini si fa sempre maggiore e alimenta il conflitto tra i due ex-coniugi. Marinella ha difficoltà economiche e accusa Tobias di non sostenerla adeguatamente. A giugno il tribunale respinge la richiesta di trasferimento. Marinella fa ricorso.
Lo Jugendamt continua la sua azione. I bambini sono spaventati. Piangono. Marinella promette ai figli che non permetterà più che venga loro fatto del male. Decide di reagire e di difendersi e cerca aiuto. Viene a conoscenza dell’esistenza del CEED (Conseil Européen des Enfants du Divorce – Consiglio europeo dei bambini del divorzio) un’associazione di genitori di bambini vittime di sottrazioni internazionali, e la contatta. Apprende che il suo caso non è isolato. Viene a sapere di bambini sottratti ai loro genitori dallo Jugendamt, senza preavviso e assegnati a famiglie affidatarie. Decisione drastica e al stesso tempo drammatica, il 14 settembre 2008 è in viaggio con i figli. Destinazione Milano. Qualche giorno dopo li iscrive a scuola. Ottobre 2008. Marinella viene a sapere di essere ricercata dalla polizia. Il 27 ottobre si costituisce e apprende che contro di lei è stato spiccato un mandato di arresto europeo, emesso a Monaco già il 24 agosto quando si trovava ancora in Germania e mentre i figli erano in vacanza con il padre. Rischia fino a cinque anni di prigione. “Strano che il due settembre, presentandomi a Monaco all’udienza di ricorso per il negato trasferimento, ricorso anch’esso respinto, non sia stata arrestata” dichiara Marinella. Ma quel giorno aveva già capito, sono sue parole, che si stava costruendo un caso per impedire che i figli lasciassero la Germania, e per toglierle l’affido. Trascorre una notte nel carcere di S. Vittore. Il giorno dopo viene rilasciata con l’obbligo di firma settimanale.
Il due dicembre 2008 il Tribunale dei Minori di Milano sulla base della documentazione ricevuta dalla Germania dispone il rimpatrio immediato dei bambini. Marinella denuncia anomalie ed irregolarità nella documentazione prodotta dai giudici tedeschi. Ciò in particolare per quanto riguarda la correttezza delle traduzioni il cui testo, non conforme all’originale, assegna al padre l’affidamento esclusivo dei figli. Marinella, delusa dalla decisione dei giudici italiani, decide di non mandare più a scuola i figli e li nasconde. Il giorno dopo le arrivano in casa i carabinieri. Da quel momento dà inizio alla sua azione di informazione, di denuncia e di protesta. Contatta giornali e televisioni e scrive alle Istituzioni italiane ed europee. Tra gli altri, al Presidente della Repubblica e al Ministro della Giustizia. Il 26 gennaio 2009 i giudici della Corte d’appello rendono noto di aver rilevato “condizioni ostative” alla concessione dell’estradizione e che pertanto non accolgono la richiesta delle autorità tedesche. Marinella resta in Italia. Ciò non serve ad impedire che rimanga oggetto non solo di uno, ma di due procedimenti a suo carico, uno in campo penale e l’altro in campo civile. Uno, per il reato di sottrazione di minori, l’altro per non aver dato luogo al rientro dei bambini ordinato dai giudici. Nel mese di marzo avanza ricorso in Cassazione contro la decisione del Tribunale dei Minori di Milano. I tempi tecnici dei ricorsi in Cassazione sono lunghi e Marinella non può e non vuole tenere a lungo i figli nascosti. I suoi avvocati contattano quelli dell’ex-marito e tra le parti ha così inizio una mediazione stragiudiziale con lo scopo di arrivare a sottoscrivere un accordo con il quale Tobias rinuncia al rimpatrio dei figli e Marinella si impegna a far riprendere i contatti tra lui e i bambini. Aprile 2009. Firmato l’accordo Leonardo e Nicolò riprendono la scuola. Otto maggio. Marinella va a prenderli a scuola, ma non li trova. Li hanno presi i carabinieri, per consentirne il rientro in Germania.
Dopo quell’otto maggio Marinella accentua la sua campagna di informazione e di denuncia. L’eco che ne deriva è forte. Rilascia interviste a quotidiani, riviste e televisioni, e contatta parlamentari italiani ed europei. Tra questi l’on. Alessandra Mussolini, Presidente della Commissione Parlamentare per l’infanzia, che in una trasmissione di Canale 5 si impegna ad andare a fondo nella questione e dice persino di volersi recare personalmente in Germania. Il venti maggio il ministro Frattini istituisce una task force interministeriale sulla sottrazione internazionale dei minori.
Questo in Italia. E in Germania?
In Germania Tobias è impegnato nella delicata fase di normalizzazione della vita dei figli. Raggiunto da un cronista italiano de “il Resto del Carlino” rilascia per la prima volta un’intervista che viene pubblicata l’otto giugno, a un mese dal rientro dei bambini. Tobias dichiara che Leonardo e Nicolò stanno bene e che hanno ripreso con piacere la scuola e parla di come trascorrono la giornata ed i fine settimana. Poi parla anche della stampa italiana che si dimostra “priva di senso critico”. E delle “bugie dell’ex-moglie: non appena si è accorta che io e i ragazzi eravamo felici di stare insieme, ha cercato di andarsene per sempre in Italia. In questo modo voleva ridurre i miei incontri con i bambini, e alla lunga di impedirli. Solo a questo punto ho spiegato al nostro consulente coniugale, ai periti del tribunale e al giudice che i due bambini avevano un bisogno profondo e urgente del loro padre; della sua tenerezza per bilanciare il rapporto rigido e duro con loro madre, e con i suoi interventi duri e possessivi”. Sono le parole di Tobias, che continua: “In Italia è stata violata la mia sfera privata. In Germania il caso è conosciuto per fortuna solo da poche persone coinvolte. Purtroppo, è proprio la signora C. che non conosce limiti. Finora ho potuto tenere lontana la stampa e continuerò a farlo, con la sola eccezione di questa intervista. Io desidero solo una cosa: vivere in pace con i miei figli. Mi rammarico molto per come estranei si immischiano nelle nostre faccende e cercano di aizzare gli animi. Mi appello a tutti, e in particolare alla signora C.: preservate la nostra sfera intima e privata”.
Signor R. siamo qui a parlare di Lei, dei Suoi figli e della Sua ex-moglie, e Lei penserà che non abbiamo ascoltato il Suo appello. Vorremmo però tranquillizzarLa. La Sua vicenda ci sta a cuore. Non la seguiamo con occhio inquisitore, bensì desideriamo sinceramente che per i Suoi figli presto si trovi una soluzione che permetta ciò che è un loro sacrosanto diritto, avere una casa, una vita serena e l'affetto dei loro genitori.
Torniamo in Italia. Marinella non ha notizie dei figli, non le è permesso sentirli tanto meno andarli a visitare. Nonostante non possa mettere piede sul suolo tedesco, il 22 giugno il Tribunale di Monaco la diffida dall’avvicinarsi a meno di 200 metri dall’abitazione dei bambini o dalla scuola pena una multa di 250.000 euro o in alternativa sei mesi di prigione. Il sette luglio quattro parlamentari italiani inoltrano un’interrogazione scritta al Presidente del Consiglio e ai Ministri degli Esteri e della Giustizia chiedendo quali azioni si intendano intraprendere, in sede comunitaria, al fine di persuadere il governo di Berlino ad aprire un dialogo con i rappresentanti dello Jugendamt. A questa interrogazione ne seguono svariate altre che restano senza risposta. La vicenda ha ormai assunto una dimensione internazionale e tocca il delicato intreccio dei rapporti tra le diplomazie dei due Paesi. Marinella raccoglie oltre 1.500 firme per una maxi-petizione. L’eco della sua battaglia giunge al Parlamento Europeo di Strasburgo dove il 25 novembre l’on. Cristiana Muscardini presenta un’interrogazione alla Commissione.
Inizio 2010. Tutte le iniziative fin qui messe in azione, le conferenze stampa, le interviste giornalistiche e televisive, le petizioni e le interrogazioni non bastano a consentire che Marinella possa rivedere i figli. La donna è disperata. Il 19 febbraio 2010 è a Monaco. Vede i figli per strada, li chiama. I tre non si vedono da dieci mesi. Si abbracciano e vanno via insieme. Di loro da quel giorno non si ha più traccia. Qualche giorno dopo Radio 24 diffonde questa dichiarazione:
“Buongiorno a tutti, sono Marinella C. Avrete già ormai tutti sentito che Leonardo e Nicolò sono di nuovo con me. Stiamo bene, siamo contenti. (...) Io sono dovuta andare da sola a riprendere i miei figli perché, era chiaro, una volta rimandati in Germania, dall’Italia nessuno sarebbe più andato a liberarli. E in Germania qualsiasi prova io possa portare delle illegalità che sono state fatte nei miei confronti non interessa a nessuno. (...) Erano dieci mesi che non potevo vederli senza nessuna ragione chiara. (...) Quindi ho dovuto farlo. Non ho fatto niente di speciale, ho fatto quello che qualsiasi genitore responsabile nei confronti dei propri figli avrebbe fatto. Io spero soltanto adesso che, finalmente, vengano riconosciuti i diritti dei miei figli, anche quello di avere due genitori, e questo potrà succedere solo in Italia”
Jugendamt
Nella vicenda C.-R. lo Jugendamt ha svolto un ruolo importante e merita un approfondimento. Letteralmente la parola “Jugendamt” vuol dire “ufficio della gioventù”. L’Ufficio è la principale istituzione tedesca a sostegno dell’infanzia e della gioventù e fa parte dell’amministrazione comunale. Gli Jugendamt assistono e supportano i tribunali dei minori in merito a tutte le questioni riguardanti la potestà genitoriale e il diritto di visita. Partecipano e collaborano nelle cause e nei dibattimenti processuali.
Sicuramente sono moltissimi i casi in cui gli Jugendamt svolgono opera meritoria. Sussistono tuttavia molteplici situazioni che gettano ombra sull’istituzione e richiamano critiche dall’interno e dall’esterno della Germania. Numerosi episodi di ingerenza nella vita delle famiglie sono stati denunciati dai media. In una trasmissione del 22 gennaio 2009 il canale ARD (prima TV tedesca, ndr) parla di centinaia di casi di genitori ai quali sono stati tolti i figli e che non hanno chance di riaverli e afferma che in nessun altro Paese europeo i servizi sociali hanno un potere paragonabile a quello degli Jugendamt tedeschi. Il 18 marzo scorso la TV americana CBN ha denunciato senza mezzi termini lo strapotere del servizio sociale tedesco che “terrorizza e distrugge le famiglie e fa affari sulla loro pelle”. Questi sono solo alcuni esempi della pessima reputazione che si è andata formando intorno a questo servizio sociale tedesco. Ad essi si aggiunge quello della signora C. Nelle sue interviste Marinella racconta di minacce, ricatti e tentativi di manipolazione dei funzionari dell’ufficio. Questi interrogano i bambini uno alla volta e a porte chiuse e tentano a più riprese di mettere in cattiva luce la madre. Una psicologa le fa visita per verificare se è idonea a svolgere il ruolo di madre. Un curatore legale, “Verfahrenspfleger”, scrive al giudice evidenziando il rischio che i bambini non siano accettati in Italia per il loro accento tedesco. Anche Tobias nella sua unica intervista commenta l’operato dello Jugendamt. “Le accuse allo Jugendamt sono assolutamente ingiuste” egli dice. “Durante il processo ha dato il suo parere solo due volte, sostenendo che era meglio per i bambini vivere con il padre in Germania, piuttosto che con la madre in Italia. Simili consigli sono giunti anche da parte del perito che il tribunale ha voluto consultare”. Insomma affermazioni diametralmente opposte. Comprensibile, visto che si tratta di persone che hanno un contenzioso.
Esistono però pareri sicuramente meno soggettivi. A Strasburgo ad esempio la questione Jugendamt è ben nota. Il Parlamento Europeo ha dichiarato come ammissibili molte delle petizioni pervenute negli ultimi anni. Il 22 dicembre 2008 la commissione per le petizioni del Parlamento ha reso pubblico un documento di lavoro che tratta delle numerose petizioni relative a “presunte misure discriminatorie e arbitrarie compiute dallo Jugendamt” e ha affermato che “il suo operato rappresenta una questione di reale preoccupazione per molti cittadini europei e deve quindi essere affrontata con urgenza dalle autorità responsabili a livello nazionale”. Il documento cita tra le altre la “Petizione dei dieci genitori” inviata dal CEED che afferma che lo Jugendamt non trova corrispettivi negli altri Stati di diritto e che i suoi poteri sono molto estesi giungendo a comprendere quelli propri di un giudice. Obiettivo della petizione è che lo Jugendamt venga dichiarato illegale e di conseguenza abolito. Il 20 gennaio 2010 la Commissione Europea risponde all’interrogazione dell’on. Muscardini del 25 novembre 2009. E afferma che “le materie inerenti all’esercizio della responsabilità genitoriale, anche nei casi con implicazioni transnazionali, sono competenza degli Stati membri e non già dell’Unione europea”. Non è una bella risposta, ma così è.
Il dieci marzo scorso a Strasburgo si è tenuta una conferenza stampa sui metodi dello Jugendamt. Alla conferenza hanno partecipato alcuni europarlamentari tra cui il polacco on. Zimasky e gli italiani on. Muscardini, on. Pittella, on. Angelilli. Presenti numerose famiglie, soprattutto tedesche, nonché il CEED con il suo presidente Olivier Karrer. Quest’ultimo ha menzionato numerosi casi di abusi compiuti dallo Jugendamt e ha affermato che lo scopo dell'ufficio è quello di difendere gli interessi tedeschi contro i cittadini stranieri.
Insomma pare proprio che un “problema Jugendamt” esista e sia piuttosto grave. Da più parti nel mondo l’istituzione è sotto accusa. Se anche soltanto la metà degli abusi e delle discriminazioni denunciate a suo carico risultassero vere, la Germania, paese fondatore dell’UE, ha il dovere di indagare e correre ai ripari anche alla svelta. Una drastica correzione dei metodi e delle procedure e una riforma in senso democratico dell’istituzione appaiono indifferibili.
Il quadro giuridico e normativo
Vogliamo ora collocare la nostra storia nel quadro normativo vigente. Ciò è importante per capire come mai determinati eventi siano potuti accadere e per formulare ipotesi sugli sviluppi a venire.
Nel quadro giuridico un posto preminente è occupato dalla Convenzione dell’Aia del 1980. Questa ha il fine di assicurare che i diritti di affidamento e di visita previsti in uno Stato siano effettivamente rispettati negli altri Stati contraenti. Per quanto riguarda i casi di sottrazione internazionale, con la Convenzione dell’Aia gli Stati firmatari hanno stabilito procedure tese ad assicurare l’immediato rientro del minore nel proprio Stato di residenza abituale, nonché a garantire la tutela del diritto di visita. Il fulcro organizzativo intorno al quale ruota la sua concreta attuazione è l’istituzione, in ciascuno Stato contraente, di un’Autorità centrale incaricata di adempiere agli obblighi imposti dalla Convenzione. Questi organi centrali “devono promuovere la cooperazione tra le autorità competenti nei loro rispettivi Stati, al fine di assicurare l’immediato rientro dei minori”. Il presupposto sul quale si basa il buon funzionamento della Convenzione è quindi quello della reciproca fiducia tra gli Stati firmatari. Oltre alla Convenzione dell’Aia, in ambito più strettamente europeo c’è il Regolamento 2201/2003, noto come “Bruxelles II bis”. In estrema sintesi, il regolamento stabilisce che foro competente per le decisioni in merito alla sottrazione è quello dello Stato di abituale dimora e che i tempi di rientro dallo Stato dove il minore è stato trasferito debbono essere rapidissimi (sei settimane). Il regolamento stabilisce che “le decisioni pronunciate in uno Stato membro sono riconosciute negli altri Stati membri senza che sia necessario il ricorso ad alcun procedimento”, senza “procedere al riesame della competenza giurisdizionale del giudice dello Stato membro d’origine” e che “in nessun caso la decisione del giudice può formare oggetto di un riesame del merito”. In pratica sia Convenzione che Regolamento affermano il principio della reciproca fiducia.
Molto bene. Tuttavia, tale assunto può rivelarsi problematico. Infatti la sua validità sussiste solo se norme e procedure applicative dei diversi Stati contraenti sono basate su criteri giuridici comparabili. In parole semplici il sistema funziona così: io, Stato A, riconosco a te, Stato B, l’autorità di procedere a carico di un mio cittadino in quanto assumo che le tue procedure interne, ancorché diverse dalle mie nella prassi organizzativa, soddisfino requisiti della correttezza formale, della legittimità e della non incompatibilità. Ma ciò è sempre vero? Lo è stato nel caso dei coniugi C.-R.? Insomma si può porre la domanda, se l’assunto sia sempre valido o se la sua validità non sia invece da dimostrare. Porsi cioè in contraddittorio con esso. In fondo stiamo parlando di sottrazione di minori e non di furto di biciclette. Se l’assunto della reciproca fiducia viene meno, dobbiamo allora porci la questione se non possano verificarsi situazioni in cui nocivo sia non il trasferire il minore in un altro Stato, bensì il mantenerlo dov’è. Se in tali situazioni non possa diventare opportuno, e perfino necessario, allontanare il minore dallo Stato di abituale dimora. Farlo proprio allo scopo di garantirne la protezione. Porsi la questione di chi debba ravvisare le circostanze nocive per il minore e compiere le azioni orientate a contrastarne i pericoli. Deve essere un’autorità dello Stato? Deve essere un genitore? E cosa succede se è proprio lo Stato a rappresentare il pericolo per il minore? Se un genitore abusa dei suoi diritti di custodia, lo Stato può (e deve) intervenire, ma cosa deve (e può) fare un genitore se ad abusare è lo Stato? Se ad abusare sono cioè le istituzioni che dovrebbero garantire protezione e incolumità del minore? Cosa deve fare in particolare il genitore straniero che vive in un altro Stato e ravvisa scorrettezze gravi da parte proprio dei funzionari che lavorano nell’organizzazione statale? Può rivolgersi all’autorità giudiziaria del proprio Stato e denunciare il comportamento anomalo delle istituzioni straniere? La Convenzione dell’Aia sarebbe di aiuto o di impedimento? Il caso della signora C. può essere fatto rientrare nella suddetta fattispecie?
Un altro aspetto che rende discutibile l’assunto della reciproca fiducia è la grande diversità delle norme di diritto di famiglia degli Stati europei. Con il regolamento Bruxelles II bis l’Europa, invece di tentare di eliminare le anomalie tra le norme nazionali e procedere ad una armonizzazione, ha preferito realizzare un dispositivo che fa rientrare ogni disputa transnazionale entro i confini dello Stato in cui risiedono le persone fisiche interessate al contenzioso. Ovvero entro l’ordinamento giuridico vigente all’interno di tali confini. Affermando di voler assicurare che i diritti di custodia e di visita previsti in uno Stato siano rispettati negli altri Stati contraenti, di fatto sia la Convenzione dell’Aia sia Bruxelles II bis legittimano le contraddizioni tra gli ordinamenti. E in virtù della reciproca fiducia estendono meccanicamente le anomalie giuridiche di uno Stato ad un altro che ne è privo.
Un altro tema importante, ma parimenti critico, è quello della mediazione. Nel testo della Convenzione dell’Aia la parola “mediazione” non appare. Non ce n’è traccia. Nel Regolamento Bruxelles II bis è invece nominata. Soltanto una volta. Vediamo: “le Autorità centrali provvedono, direttamente o tramite le autorità pubbliche o altri organismi a facilitare un accordo fra i titolari della responsabilità genitoriale, ricorrendo alla mediazione o con altri mezzi, e ad agevolare a tal fine la cooperazione transfrontaliera”. Non è molto, ma meglio di niente. Cooperazione transfrontaliera è una bella espressione solo che resta poi difficile capire chi deve cooperare con chi. Nel caso di Tobias e Marinella c’è stata cooperazione tra gli Stati? C’è stata almeno la mediazione? Qualcuno (e chi se non lo Jugendamt?), ha provveduto a facilitare un accordo fra i due genitori? A giudicare dalla descrizione dei fatti si direbbe che l’unico tentativo ha avuto luogo nella primavera 2009 e aveva l’obiettivo di far uscire i bambini dal luogo nascosto dove la madre li teneva, far loro riprendere la scuola e consentire al padre di poterli vedere. Il Tribunale dei Minori di Milano ha cercato di favorire la mediazione convocando le parti. L’accordo è stato firmato dagli avvocati e i bambini hanno ripreso la scuola. L’atto è stato poi trasmesso anche alle Autorità centrali dei due Paesi ed al Tribunale di Monaco. Dopo poche settimane però l’avvocato tedesco ha mandato un fax al Tribunale di Milano, ma non alla controparte, dicendo che la mediazione non interessava più e che i bambini dovevano immediatamente tornare in Germania. Il Procuratore del Tribunale dei Minori di Milano ha dato seguito alla richiesta e ha inviato la forza pubblica a scuola. Il resto lo conosciamo.
Alla conferenza stampa del dieci marzo l’on. Angelilli, vicepresidente del Parlamento Europeo, ha affermato di essere stata nominata, a partire da gennaio 2010, mediatrice del Parlamento Europeo per i casi di sottrazione internazionale e di aver già ricevuto 50 casi, tutti con entrambi i genitori disponibili alla mediazione. La precedente mediatrice e parlamentare europea, l’on. Gebhardt, tedesca, nel 2007 ha predisposto un’interessante relazione in cui emergono le difficoltà di collaborazione con le Autorità centrali e ciò proprio perché la Convenzione dell’Aia non contempla affatto la mediazione. Cosa che sapevamo già. La relazione termina con una serie di raccomandazioni orientate a promuovere il ruolo della mediazione e a facilitarne l’adozione. Insomma, per quanto sicuramente importante, l’esistenza della figura di mediatrice europea svincolata dalla Convenzione dell’Aia, ha valore più che altro politico e di indirizzo. E fin quando convenzioni e trattati non incorporeranno l’esigenza di impiegare la mediazione a basso livello, tale indirizzo è destinato a rimanere frustrato. Inoltre per motivi geografici la figura della mediatrice europea rimane lontana da gran parte dei casi individuali che avvengono in Europa. Lontana e direi anche sconosciuta. Si impone dunque che la mediazione si conquisti un posto di rilievo, che ottenga riconoscimento e rispetto, che rappresenti l’approccio da preferire già in fase preliminare. Dirò di più: che diventi obbligatoria. Trattati, regolamenti e convenzioni sono solo un meccanismo di difesa, a effetto ritardato, che entra in funzione quando eventi drammatici sono già accaduti. Un meccanismo che non previene e che non agisce sulle cause, ma solo tardivamente sugli effetti. Sulle cause potrebbe invece agire la mediazione. Ma a questa, a quanto pare, non è dato spazio. Nelle convenzioni, come nelle istituzioni, come nei fatti.
Europa, sei Tu la Terra Promessa?
Il 24 febbraio 2010 l’on. Muscardini ha avanzato una proposta di risoluzione al Consiglio ed alla Commissione invitando i due massimi organi europei a valutare la necessità di istituire un Ente centrale per il diritto di famiglia nell’ambito dello Spazio giuridico europeo e ad affidare ad esso la competenza di farsi carico in tempi brevi dei ricorsi eventuali delle parti in conflitto che si ritengono discriminate dalle decisioni di un tribunale nazionale di uno Stato membro dell’Unione diverso dal loro. La risposta non si è fatta attendere a lungo e il 16 aprile scorso la Commissione ha testualmente dichiarato che “ai sensi del trattato sul funzionamento dell'Unione europea e del trattato sull'Unione europea, l'Unione europea non sembrerebbe disporre delle competenze necessarie per istituire un Ente centrale europeo per il diritto di famiglia, come suggerito dall'onorevole parlamentare”.
È noto a tutti che la Costituzione Europea è naufragata nel 2005 a seguito dei referendum di Francia e Olanda. Il Trattato di Lisbona ha poi ripreso in gran parte il vecchio testo e ora è stato approvato. Vi si legge: “le misure relative al diritto di famiglia aventi implicazioni transnazionali sono stabilite dal Consiglio, che delibera secondo una procedura legislativa speciale. Il Consiglio delibera all’unanimità previa consultazione del Parlamento europeo. (…) I parlamenti nazionali sono informati della proposta. (…) Se un parlamento nazionale comunica la sua opposizione entro sei mesi dalla data di tale informazione, la decisione non è adottata. In mancanza di opposizione, il Consiglio può adottare la decisione”. Insomma se un solo Paese UE si oppone ad una decisione presa dai restanti 26, questa salta. È chiaro che il modello parlamentare europeo, assai bello sulla carta, rischia operativamente la paralisi.
Avremo un giorno un diritto di famiglia europeo?
Scetticismo e pessimismo generali lasciano poco spazio a questa speranza. C’è tuttavia un’altra domanda alla quale qualcuno dovrà pur dare una risposta. E anche presto. Che ne sarà di Leonardo e Nicolò? Chi si farà carico di trovare una soluzione al loro dramma? Il 17 marzo a Roma al “Palazzaccio” c’è stata un’udienza della Corte di Cassazione sul ricorso contro la decisione del Tribunale dei Minori di Milano del dicembre 2008, quella che aveva disposto il rientro in Germania dei bambini. Il Procuratore Generale ha riconosciuto la fondatezza del ricorso e ne ha chiesto l’accoglimento. Va detto però che da dicembre 2008 molte cose sono successe. I drammi personali hanno velocità e tempi diversi da quelli istituzionali. I bambini, forzatamente rimpatriati prima, sono stati poi ripresi dalla madre recidiva. Tutto ciò non potrà non avere un impatto sulle future decisioni dei tribunali. Svariate e molteplici le domande che si pongono. Vediamole.
Se la Cassazione confermerà l’accoglimento del ricorso, madre e figli potranno rientrare a Milano? I bambini potranno rivedere il padre? Potranno essere ascoltati da un giudice? I coniugi C.-R. potranno chiedere aiuto alla mediatrice europea per una soluzione stragiudiziale della vicenda? Potrà esserci un intervento delle diplomazie che aiuti nel superamento dei limiti giurisdizionali degli ordinamenti nazionali? Ci sarà collaborazione tra i Tribunali di Monaco e Milano?
Insomma un bel groviglio di questioni, non c’è che dire. Un groviglio che rende difficile prevedere se e quando il calvario di questa famiglia avrà fine. Se non ci sarà una soluzione europea, qualcuno ha ipotizzato che Marinella lascerà l’Europa. Lei e i suoi figli se ne andranno in un’altra terra, diversa dalla Baviera e dalla Lombardia, e i bambini rischieranno di perdere il padre. Rischieranno anche di perdere le loro due lingue, e le culture che dietro quelle lingue soggiacciono. Per chi scrive, cittadino europeo e padre, questa ipotesi appare come una sconfitta dolorosa. Una sconfitta per le persone interessate. Una sconfitta per il Vecchio Continente.
Leonardo e Nicolò sono solo un caso, emblematico se si vuole, ma solo uno dei tanti, e sono migliaia e migliaia. Bambini discriminati, figli di famiglie miste penalizzate da leggi, trattati, convenzioni e regolamenti insufficienti e inadeguati. Oggetto di ingiustizie perpetrate ai loro danni da parte di una Terra di nome Europa che fino ad oggi li ha traditi, mostrandosi incapace di mantenere le sue promesse.
Riferimenti:
Convenzione dell'Aia - 1980 http://www.gesef.it/leggiesentenze/convenzione_aja.htm
Regolamento Bruxelles II bis - 2003 http://www.giustiziaminorile.it/normativa/brux_2003.pdf
Relazione mediatrice EU per i casi di sottrazione internazionale (2007) http://www.europarl.europa.eu/pdf/mediator_children/2007_05_16_midter m_report_combined_it.pdf
Documento di Lavoro sugli Jugendamt della Commissione petizioni del Parlamento EU (2008) http://www.europarl.europa.eu/activities/committees/workingDocsCom.do ?language=IT&body=PETI
Servizio televisivo ARD sugli Jugentamt (22.01.2009) http://daserste.ndr.de/panorama/media/panorama188.html
Intervista del Resto del Carlino al signor Tobias R. (8.06.2009) http://graffitidaberlino.corriere.it/giardina.pdf
Petizione Marinella C. e On Muscardini con Nota-esplicativa (5.11.2009) http://dibattitopubbl.ucoz.com/_fr/1/ETIZIONEPARLAME.pdf
Servizio Radio 24 - Sole 24 ore (24.02.2010) http://www.radio24.ilsole24ore.com/popup/player.php?filename=100224-it alia-in-controluce.mp3
Servizio TV americana CBN sugli Jugentamt (18.03.2010) http://www.cbn.com/cbnnews/world/2010/March/Child-Welfare-Agency-Ec hoes-Nazi-Germany/
Interrogazione scritta dell'On Muscardini (Parlamento EU) alla Commissione: Convenzione dell'Aja e ruolo dello Jugendamt (23.02.2010). Sullo stesso sito è disponibile anche la risposta (16.02.2010). http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP//TEXT+W Q+E-2010-0908+0+DOC+XML+V0//IT&language=IT
Proposta di risoluzione dell'on. Muscardini al Consiglio EU sull'istituzione di un Ente centrale per il diritto di famiglia nell'ambito dello Spazio giuridico europeo (24.02.2010). http://www.europarl.europa.eu/sidesSearch/search.do?type=MOTION&lan guage=IT&term=7&author=1073
Quinto quarto – das fünfte Viertel
Vergessener Fleischgenuss
Tutto ciò che è facile è buono, tutto ciò che è buono è facile. Tutto quello che riguarda la scelta e la preparazione del cosiddetto “quinto quarto” cioè delle interiora nell’arte culinaria.
Ernst Haase, Amateurkoch und Slow Food Mitglied
Normalerweise wird der Körper von Schlachttieren in zwei vordere und zwei hintere Viertel zerteilt. Alles andere, also die Innereien, der gesamte Kopf, der Schwanz und die Füße abwärts von den Knien werden im Italienischen als „quinto quarto“, also „fünftes Viertel“, bezeichnet. Früher hatten die Arbeiter in den Schlachthöfen ein Vorrecht auf die Teile des „quinto quarto“. Manches davon, besonders die faltigen und netzartigen Gewebe um die Organe herum (zu Deutsch Gekröse) wurde auch einfach durch die Hintertüren der Schlachthöfe von Testaccio hinausgeworfen und landete in den Töpfen der Ärmsten - sofern die Hunde nicht schneller waren. So kam die römische Küche zu ihrem Ruf als „cucina povera“, also „arme Küche“, wenn nicht gar „poverissima“, also „ärmste Küche“, und vieles vom „quinto quarto“ wurde zu gastronomischen Spezialitäten der Hauptstadt erklärt.
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Dazu zählen auch die berühmt-berüchtigten Rigatoni con la pajata, von denen der Autor des Führers „Le Guide Xenofobe: Romani de Roma“ schreibt: „Man sollte sie nicht probieren ohne die vorherige Garantie eines äußerst vertrauenswürdigen Kenners der Materie, andernfalls geht man das Risiko ein, dass der Magen ausgepumpt werden muss!“
Jedoch muss gesagt sein, dass sich unter diesen Körperteilen auch Muskelfleisch und Organe befinden, über deren kulinarischen Wert in vielen Teilen der Welt kein Zweifel besteht, wenn man sich nur auf deren Zubereitung versteht. Berühmt ist in dieser Beziehung die chinesische Küche mit ihrem Grundsatz, alles ist essbar, wenn es nur fliegt oder schwimmt – außer Hubschraubern und U-Booten. Genauso wie die Sparsamkeit steht aber hinter diesem Prinzip auch eine Achtung vor dem Tier, von dem man nichts wegwirft.
Auch Slow Food bekennt sich zur Ansicht, so ein Tier hat keine unedlen Teile, es gibt nur einen Mangel an Kenntnis der Zubereitung. Deshalb widmete sich die vorangegangene Ausgabe des deutschen Slow Food Magazins dem Schwein und brachte auch Rezepte für Schweineohren und -füße. Sogar die Londoner gehen zum Essen in das „Restaurant St. John“, in dem Starkoch Fergus Henderson sein Motto „Nose-to-tail-eating“ erfolgreich verkauft.
Die deutschsprachige Ausgabe der Zeitschrift Cucina Italiana startete mit der Ausgabe Februar/März 2010 die Serie „Neue Fleischkochschule für die vergessenen Teile“ und begann mit der Querrippe von Rind und Kalb, die hierzulande nur noch als Suppenfleisch dient.
Ich sehe einen Trend in Gestalt einer wachsenden Zielgruppe, die in Zeiten der Finanzkrise nicht noch billiger beim Discounter kaufen will, sondern aus preiswertem Fleisch ohne Abstriche am Genuss verschwundene Gerichte zaubert. Nur die Fernsehköche bemühen sich noch, das „quinto quarto“ aus der deutschen Küche zu verbannen. Das liegt neben der Quotenhascherei sicher auch daran, dass in der Kürze der Sendungen Gerichte mit langer Garzeit unmöglich darzustellen sind.
Hier ist ein praktisches Beispiel für ein besonderes Fleischstück nach meinem Geschmack: Die Backen von Kälbern und Ochsen, die wegen der Psychose um BSE einige Jahre hier nicht zu haben waren, aber inzwischen auf Bestellung beim Metzger wieder zu kaufen sind. Die Zubereitung ist nicht einmal schwierig, einzig wichtig ist das lange Schmoren. Das folgende Rezept ist so ähnlich schon 1989 in Alfons Schuhbeck’s Buch „Das neue bayrische Kochbuch” erschienen. Fast identisch damit ist das Rezept von Thomas Haselwanter, italienisch alias Kaselvanter vom Unterwirt in Gufidaun bei Klausen/Südtirol, der dazu geschrieben hat: „Alles Einfache ist gut, alles Gute ist einfach.“ Die beiden Rezepte differieren von der Menge des Fleisches: Schuhbeck nimmt für vier Personen acht Kalbsbacken, Haselwanter zwölf. Entweder sind dort die Kälber kleiner oder die Südtiroler sind verfressener als die Bayern!
Kalbsbackerl mit Kräuterkruste
Für 8 Kalbsbacken braucht man:
Suppengemüse
Etwas Tomatenmark
Fast ein Liter Kalbsfond, oder weniger
und dafür mehr Rotwein
Thymian und Rosmarin
Natürlich Salz und Pfeffer
Ausnahmsweise wäre das sogar ein Fall für ein bis zwei Löffel anständigen Balsamico
Für die Kräuterkruste:
Altes Weißbrot
Eidotter
Weiche Butter
Petersilie, Basilikum
Knoblauch
Zitronensaft und -schale
Fleisch ziemlich scharf in Olivenöl anbraten.
Separat würfelig geschnittenes Suppengemüse anrösten, Tomatenmark,
Kalbsfond und Wein sowie Kräuter dazugeben, zum Fleisch in einen Schmortopf legen, zuerst eine Stunde offen bei 180° braten, Wein nachgießen, zudecken, bei 160° eine weitere Stunde zugedeckt schmoren.
Für die Kräuterkruste weiche Butter schaumig rühren und Eigelb dazugeben. Entrindetes, kleinwürfelig geschnittenes Weißbrot mit Kräutern mixen.
Buttermasse dazugeben, mit Knoblauch, Zitronensaft und –schale, Salz und Pfeffer abschmecken.
Die geschmorten Backen warm stellen und das Gemüse passieren oder aufmixen, mit Salz und Pfeffer abschmecken, die Kräuterpaste darauf streichen und unter den Ofengrill schieben.
Getrocknete Steinpilze, eingeweicht und ausgedrückt, hätten in der Kräuterkruste auch noch Platz.
Dazu gibt es bei mir Gemüse und Polenta oder nördlich des Alpenhauptkammes aufgebratene Serviettenknödel.
Ähnlich läuft die Zubereitung aller Gerichte mit Ochsenschwanz, der seit Jahrzehnten nur noch in die Suppe verbannt wurde. Auch die „coda vaccinara“ gehört zu den Spezialitäten Roms, und in Norditalien haben viele Köche – einschließlich des von mir verehrten Locatelli in London – entdeckt, welch einen wunderbaren Geschmack das Fleisch des geschmorten Ochsenschwanzes einer Füllung von Ravioli verleihen kann. Ich habe ihm auch eine neue Rolle gegeben: Anstelle des öden und dubiosen Hackfleisches verwende ich das nur knapp für eine Suppe gekochte Fleisch als Basis für eine kräftiges Ragout: Mit dem Messer gehackt, ergibt es eine sehr geschmackvolle Bolognese.
Den nächsten Artikel in INTERVenti widme ich dem gleichen Thema, aber den aus deutscher Sicht prekäreren Teilen des „quinto quarto”, nämlich le „frattaglie“, den Innereien.
Luigi Fedeli, fotografo dell’anno 2010
Pamela Lanciotti
Ad Orvieto in Umbria, come ogni anno, si è svolta la rassegna che premia i migliori fotografi professionisti italiani e stranieri. L’edizione di quest’anno ha visto una partecipazione enorme di concorrenti: oltre 2800 sono state le foto inviate creando un superlavoro ai giurati riuniti durante “Orvieto Fotografia” che al termine però non hanno avuto alcun dubbio ed hanno assegnato il primo premio “FIOF PROFESSIONAL PHOTOGRAPHY AWARDS 2010*” (il riconoscimento più ambito per un fotografo professionista) a Luigi Fedeli. Il fotografo titolare dello studio Symbol di via Pizzi a San Benedetto del Tronto, è stato invitato a salire sul palco per ben altre sette volte, aggiudicandosi oltre al premio già citato, il primo premio assoluto, più due Gold Awards, un Silver ed un Bronze Awards per la categoria Matrimonio ed infine due Bronze Awards per le categorie Ritratto e Commerciale.
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