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Una nuova età della pietra

Intervista ad Antonio, un piccolo arrotatore romano

Giulia Antonelli

Roma, 12 giugno 2015.
Mani ruvide accarezzano dolcemente il marmo. Il calore incontra per un attimo l’indifferenza gelida della pietra. Nella chiesa romana di Santa Maria in Cosmedin esplode un silenzio d’incenso. Un pugno batte diversi colpi sulla lastra. Riecheggia un suono sordo. “Si muove, è vuota sotto“. Il parroco alza gli occhi al cielo. “E quanto ce costa ‘sto vuoto, Anto’?” Antonio sorride e si alza. Tira fuori dalla tasca dei jeans sporchi di mastice un metro giallo, uno di quelli avvolgibili, e inizia a prendere le misure.

Fa scorrere quel serpente d’alluminio fino allo zoccoletto e blocca la sua estremità col piede. Annota le dimensioni e ripete più volte la stessa operazione. 500-600 metri quadri, il calcolo approssimativo. “Sui venti al metro quadro”, afferma l’arrotatore alzando lo sguardo. Il religioso mugugna qualcosa e si avvia verso la canonica. La luce penetra morbidamente dalle vetrate colorate, la Vergine Maria si lascia invadere di nuance. Una preziosa gamma cromatica risalta sulla pietra. È un’esplosione di colori. Una primavera immobile e silenziosa. 
È un marmo policromo. Bisogna rimuovere le stuccature vecchie e rifarle col colore della pietra, poi arrotare e levigare con varie passate di abrasivo a gradazione, in modo da eliminare i dislivelli tra una lastra e l’altra, e solo infine intervenire con una lucidatura a piombo. “Ce vorrà ‘na ventina di giorni”, pensa fra sé Antonio, mentre si avvia verso la Fiat Dublò parcheggiata in doppia fila. La chiesa si trova in Piazza della Navicella, a un passo dall’ospedale militare del Celio e del Colosseo. 
A casa abbozza un preventivo, fa un conto degli operai a disposizione e invia un prezzo forfettario al parroco, cifra che, molto probabilmente e per miracolo divino, subirà una lieve diminuzione.

La Santa Sede è arrivata a lui tramite il suggerimeno di una vecchia conoscenza. Per lavorare in ambito ecclesiastico non servono inserzioni sulle pagine gialle né tantomeno un elaborato sito online. C’è fame di pubblicità umane. Lo sa bene Antonio che vive di questo mestiere da trentaquattro anni. Ci tiene a non essere confuso con un marmista. Se quest’ultimo sostituisce la lastra, lui la restaura, la riporta al suo splendore, ricrea un equilibrio nella scala cromatica ed un’armonia ottica per chi osserva.

INTERVenti (IV): Antonio, come definirebbe Lei e il Suo mestiere?
Antonio (A): Io sono un arrotatore di pavimenti in marmo, un piccolo imprenditore (di una ditta composta da tre operai) e un artigiano. Perché il mio è un lavoro manuale certo, ma anche artistico. Pure l’occhio vuole la sua parte!

IV: In che senso?
A: Bisogna rispettare i colori, le sfumature, soprattutto se c’è da fare un piccolo lavoro di mosaico... non puoi fare uno stucco di mastice bianco su un rosa portogallo. È impensabile. È ‘na ‘pecionata’!

I: E Lei, Antonio, di ‘pecionate’ ne ha viste tante in giro?
A: Ne ho viste che sí. La gente non c’ha i soldi, si affida a queste ditte straniere, soprattutto rumene o bulgare. 13-14 euro al metro quadro, senza fattura, senza tasse. No problem. Il problema poi peró ce l’ha il pavimento, che rimane poroso e tende a perdere lucentezza in breve tempo. Le macchine utilizzate sono italiane, la differenza sta nella manodopera. E nel prezzo, è evidente !

IV: Come ha influito (e continua ad influire) la crisi sull’artigianato?
A: La crisi ha paralizzato il nostro settore, ci ha messi di fronte al nulla. Adesso sembra che un po’ di lavoro sia scappato fuori, ma per diversi mesi ho avuto tanto tempo libero. Ogni tanto arrivava qualche chiamata. Due, massimo tre giornate di lavoro e poi di nuovo a casa, in attesa che il telefono squillasse. A metà ottobre e per tutto novembre non ha squillato proprio più. Allora ho sistemato il magazzino, lavato i furgoni, verniciato la ringhiera... poi però non c’era più nulla da fare e sono stato sul divano per interi pomeriggi.
Racconta anche di aver ‘mandato a casa un operaio’ (non vuole usare la parole licenziare), di aver guardato solo di rado il telegiornale. Dice che capiva perfettamente chi decideva di farla finita. ‘In quei momenti ti assale lo sconforto. Ti senti privato della tua dignità, la dignità di lavorare.’
Mi racconta poi del lavoro a Santa Maria in Cosmedin e degli orari che bisognava rispettare. ‘Quando c’erano i funerali toccava smette’, ammette.

IV: Alla fine c’è stato un intervento divino sul prezzo?
Antonio ride e annuisce.

 

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