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- Categoria: Cultura
- Pubblicato Lunedì, 06 Dicembre 2010 17:36
Da Atene a Roma via Monaco
Visita alla casa romana di Giorgio de Chirico
Der Besuch der „Casa – Museo“ des Malers Giorgio de Chirico an der spanischen Treppe bietet Einblicke in das Werk des Erfinders der metaphysischen Kunst. Einiges erinnert hier auch an die Architektur Münchens, der Stadt in welcher der Künstler Anfang des zwanzigsten Jahrhunderts die Akademie von Franz von Stuck besuchte.Alessandro Gambaro
“Dicono che Roma sia il centro del mondo e che piazza di Spagna sia il centro di Roma, io e mia moglie, quindi si abiterebbe nel centro del centro del mondo, quello che sarebbe il colmo in fatto di centrabilità e il colmo in fatto di antieccentricità”. Detto da De Chirico, che di eccentricità pittoriche e architettoniche se ne intendeva, c’è da crederci. Certo, la rutilante, affollata, turistica piazza di Spagna che assedia il portone della casa-museo della Fondazione De Chirico, dove il Maestro abitò e lavorò negli ultimi trenta anni della sua vita, non somiglia a nessuna delle algide geometrie delle “piazze d’Italia”, spesso percorse dalle lunghe ombre del tramonto, che egli dipinse in molte varianti, tanto da farne diventare la cifra stilistica piú riconoscibile e autentica della sua produzione artistica. Non ci sono le simmetrie dei porticati dechirichiani, non ci sono monumenti, nè statue nella piazza di Spagna che conosciamo: del tutto irregolare nella sua geometria, risultato di secoli di costruzioni, rifacimenti e innalzamenti; assolata nei colori pastello delle sue case, mentre il biancore della scalinata marmorea ne apre verso l’alto il lato nord e costringe lo sguardo a salire fino alla Chiesa francese della Trinità dei Monti, che finisce così per costituire il vero fulcro della piazza. Forse solo l’azzardo della fontana della Barcaccia, costruita nel 1629 da Pietro e Gian Lorenzo Bernini, più bassa del piano stradale (a causa della insufficiente pressione dell’acqua), può suggerire qualcuna delle oniriche fontane che appaiono a volte nelle piazze deserte e silenziose dipinte da De Chirico. La casa di De Chirico, si trova alla sinistra di chi scende la famosa scalinata, al numero 31, subito dopo la “Keats-Shelley Memorial House” dove il grande poeta inglese John Keats trascorse, malato, gli ultimi mesi della sua breve vita e vi morì a soli 25 anni, nel 1821. “Qui giace uno il cui nome è scritto sull’acqua” è il motto che il poeta volle inciso sulla sua tomba nel cimitero acattolico del Testaccio. Nell’androne, piuttosto stretto e buio, si è accolti da una delle molte varianti della scultura che rappresenta Ettore e Andromaca. Salendo (ora con un comodo ascensore) fino al 5° piano, quello che colpisce della casa che fu di De Chirico è soprattutto lo stile assolutamente “borghese” dell’arredamento. Bei mobili, bei tappeti, bei soprammobili, quadri e qualche arazzo alle pareti, oltre, ovviamente, molti souvenir grandi e piccoli, dello stesso De Chirico. Può sorprendere che il creatore, insieme a Carlo Carrà, della pittura “metafisica”, fitta di schemi geometrici, e di oggetti decontestualizzati che dovevano rappresentare il “significato profondo delle cose” (basta pensare alle “squadre” o ai “manichini”), colui che seppe mescolare linguaggi e culture contradditorie in una classicità ambigua e astratta (ricordiamo gli “archeologi” o “le muse inquietanti”) si rifugiasse poi nel tepore di una bella casa borghese. E, in effetti, nella casa di De Chirico - come la vediamo oggi - ci sono molte cose di ottimo gusto antico, mobili, poltrone, lampadari. Ma ci sono soprattutto i suoi dipinti, di varie dimensioni, che arredano quasi tutte le pareti e, soprattutto, sue sculture in diversi materiali e di differenti dimensioni, che occupano i tavoli ottocenteschi, le consolle e i piani dei cassettoni. E gli oggetti, i dipinti, le statue presenti nella casa-museo si richiamano spesso alla classicità che affascinò il De Chirico giovane, agli antichi templi, ai reperti archeologici della Grecia Antica, talora congelati in una fissità fuori dal tempo, e riproposti come parte di un “altrove” che li supera e li rende espressione di nuove realtà. Apparentemente nulla, nella produzione artistica di De Chirico, ricorda la Monaco dove studiò all’accademia di Franz von Stuck, dove restò affascinato dalla filosofia di Schopenhauer, di cui, all’epoca, tradusse alcune poesie, nè la Monaco dell’entusiasmo per Nietzsche e per Weininger, o delle lunghe ore trascorse nei musei studiando gli antichi pittori e l’opera di Arnold Böcklin. Eppure il visitatore che proviene da Monaco di Baviera - dove De Chirico visse tra i diciotto e i venti anni, cioè proprio nel periodo centrale della sua formazione artistica, culturale e umana - è indotto a ricercare cenni, richiami, o anche soltanto ipotesi di memorie, di quel periodo, di quella città. In talune delle “piazze d’Italia”, con le loro sfilate di portici, con gli spigoli taglienti dei palazzi, con le lontananze interrotte da una torre, dallo schema di un tempio che potrebbe essere greco, oppure da un nero treno a vapore, o anche solo da un muretto che distende la sua ombra indolente, forse non ci sono solo i colori mediterranei e le emozioni delle innumerevoli piazze delle città italiane. Forse - come argomentava Philippe Daverio in un interessante studio per il programma “Passepartout” di RAI3, in occasione della mostra sull’opera di De Chirico e di suo fratello Alberto Savinio, realizzata a Monaco alcuni anni or sono - quei colori e quelle emozioni parlano anche, e con nostalgia, di qualcuna delle belle piazze della Monaco di inizio Novecento. Una città che, durante il lungo regno di Ludwig I, ebbe rapporti politici e culturali molto stretti con la Grecia e che, nel corso del tempo, si arricchì sia di pezzi autentici della classicità greca, sia di ricostruzioni più o meno ideali, ambientate in spazi del tutto nuovi e che finirono per costituire inattesi e sorprendenti contesti architettonici ed urbanistici. Così come l’intera area della Königsplatz, dove furono costruiti la Glyptothek, in stile ionico, l’Antikensammlungen in stile corinzio e la porta di accesso alla città in stile dorico, ispirata ai propilei di Atene, creando un insieme che nel grande progetto urbanistico del re Ludwig I avrebbe dovuto diventare una “Atene sull’Isar”. Bisogna infatti ricordare che Giorgio De Chirico nacque a Volos, come suo fratello Andrea - che in seguito prese il nome d’arte di Alberto Savinio – nel 1888, figlio di un ingegnere italiano che costruiva a quel tempo ferrovie in Grecia, e della nobildonna Emma Cervetto. Ancora ragazzo, alla morte del padre tornò in Italia con la madre e il fratello. Dopo qualche tempo si trasferì a Monaco di Baviera per completare gli studi presso l’accademia d’arte diretta da Franz von Stuck, dove trascorse due anni, tra il 1906 e il 1908. Dopo il biennio di studi trascorso a Monaco, tornò a vivere in Italia, in diverse città, tra cui Torino, Ferrara e Firenze, oltre, per un certo periodo, a Parigi e anche in America, prima di trasferirsi definitivamente a Roma. Non stupisce quindi che il giovane De Chirico possa aver trovato nella Monaco dei suoi studi all’accademia e delle lezioni di pittura del professor Carl von Marr, una contiguità e una continuità con la classicità della Grecia che aveva da poco lasciato, con il rigore dei maestri che lo avevano educato prima a Volos e poi ad Atene, ed anche, almeno nelle architetture della Königsplatz, con il biancheggiare dei marmi delle rovine antiche. E le rovine antiche hanno costituito uno dei temi ricorrenti nei dipinti di De Chirico, tanto da essere inserite come componenti del corpo stesso degli “archeologi”, creandone un richiamo esplicito alla loro professione; oppure le ritroviamo sparse, come inciampi occasionali, ma durevoli e aspri, di fronte alla corsa libera dei “cavalli” in fuga dal paesaggio brullo e vuoto, o in tantissimi altri dipinti come un continuo richiamo alla classicità. È un rapporto, quello di De Chirico con la Grecia classica vista e vissuta nella sua fanciullezza, che non si è mai interrotto, che si è solo evoluto nel corso del tempo, e di cui Monaco costituì certamente un punto nodale per poi restare nella memoria, e, ancora più, nel cuore, come un tramite sentimentale ed anche culturale con il Paese della sua infanzia. E forse è proprio vero che in certe visioni dechirichiane, la schematica facciata di un tempio antico non manca di richiamare piú la Königsplatz di Monaco che la acropoli ateniese, e che, in certe sfilate di portici, in talune oniriche visioni di piazze monumentali, riusciamo a individuare una possibile parentela con le architetture che delimitano le bellissima piazza dell’Opera. E quando, terminata la visita alla casa-museo di De Chirico, aprendo il portone, mi riimmergo nella solita piazza di Spagna chiassosa e colorata, mi appare più vivo il contrasto con la solitudine delle atmosfere dechirichiane appena lasciate. Inizio a salire lentamente la scalinata, scanso i molti giovani, turisti in massima parte, che sostano seduti in lunghe file sui gradini al sole, supero i disegnatori di caricature e i venditori di souvenir fabbricati chissà dove, ed arrivo infine davanti all’obelisco sallustiano, altissimo sul suo piedistallo, proprio di fronte alla chiesa della Trinità, costruita nel Cinquecento ove in altri tempi si trovava la villa di Lucullo, e alla doppia rampa di scale che congiunge la Chiesa alla seicentesca via Sistina. Ma questa è un’altra storia… 2008-3 pg 8