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- Categoria: Cultura italiana a Monaco
- Pubblicato Venerdì, 12 Aprile 2019 13:15
La mia patria è la cultura
Intervista ad Antonio Macrì, segretario della Società Dante Alighieri - München e responsabile dei corsi di italiano all’Alten- und Service-Zentrum (ASZ) Haidhausen
Monaco, 26 marzo 2019.
Classe 1941, napoletano di origine, Antonio Macrì è una persona apparentemente schiva, di quelle che potrebbero passare inosservate, per caratteristiche fisiche e per un certo suo modo quieto e pacato di interagire col mondo. Ma bastano pochi minuti a scalfirne la riservatezza per farsi raccontare la sua storia, che inizia in Italia, ma che lo porta in giovane età in Baviera alla ricerca di nuove opportunità lavorative nel suo campo di studi, la chimica. Monaco diventa così la sua patria di elezione, in cui si costruisce una nuova vita, lavorativa e affettiva, con tanto studio e una buona dose di determinazione. Una dedizione che impiega non solo per migliorare la sua di vita, ma anche quella di altre persone, in particolare gli anziani. È grazie a lui, infatti, se nel 1978 nasce il primo centro diurno per anziani di Monaco.
Ci racconti di cosa si occupa in questo momento.
La mia attività principale mi vede impegnato come segretario della Società Dante Alighieri di Monaco di Baviera, per la quale da quattro anni seguo e organizzo eventi e conferenze, che promuovo sul sito internet e sulla pagina Facebook. Ma devo ammettere che l’occupazione che più mi sta a cuore è l’insegnamento. Nonostante i miei studi e il lavoro che mi ha visto impegnato per 35 anni come ingegnere chimico, faccio da trent'anni l’insegnante di italiano per un gruppo di persone che hanno tra i 70 e i 90 anni in un ritrovo per anziani comunale nella Wolfganstraße, a Haidhausen. A oggi ho 31 alunni in quattro corsi, di cui uno di conversazione.
Come è iniziato il suo impegno all’ASZ di Haidhausen?
La mia figlia più grande, Federica, quando aveva una decina di anni, mi ha chiesto un giorno come mai non andavamo in chiesa. Nonostante fossi cattolico di nascita, per assecondare il suo desiderio, decisi di convertirmi alla fede di mia moglie, che è evangelica luterana. Da quel momento abbiamo iniziato a frequentare la chiesa luterana, cosa che mi ha dato l’occasione di svolgere attività di volontariato nei centri sociali con il nostro pastore. Da lì a poco abbiamo fondato un ritrovo per anziani, da cui è nato nel 1978 il primo centro diurno per anziani della città: un luogo che mi sta molto a cuore e che non ho mai più lasciato. A chi frequenta il centro offriamo un ampio ventaglio di attività, dagli scacchi alla cucina, dalle conversazioni ai corsi di memory, anche se in realtà lo scopo principale dei miei corsi di italiano, così come di tutti gli altri, è quello di stare insieme e tenere la mente allenata. Non può immaginare che piacere fa vedere una 93enne che impara i verbi irregolari italiani! Poi organizziamo anche un paio di volte l’anno delle gite in Italia: siamo già stati a Napoli e a Venezia, a settembre andremo a Mantova, una settimana prima del Festival della letteratura. Ma, le assicuro, quello che ricevo da loro è più di quanto do, tanto che mi capita di dire alle mie vecchiette: “Vi dovrei pagare io per stare con voi!”. È una cosa meravigliosa ascoltare le storie degli anziani, attingere e imparare dall’archivio della loro memoria.
Non ci ha ancora detto però cosa l’ha portata qui a Monaco. Di solito le ragioni principali sono studio, lavoro o amore. Quale di queste tre è stata la sua?
Nel mio caso la seconda, il lavoro. Ho studiato alla Facoltà di Ingegneria industriale a Fuorigrotta, Napoli, ma al termine del mio corso di studi – era il 1965 – il lavoro non c’era. Per un po’ ho lavorato allora al giornale “Roma”, che poi però ha chiuso, e mi sono quindi trovato senza occupazione. La città al tempo era tappezzata da manifesti della Siemens, che pubblicizzavano le opportunità lavorative offerte dall’azienda oltralpe. È stato così che ho deciso di partire per Monaco, dove ho lavorato per un anno come manovale, studiando nel frattempo tedesco alla Dolmetscherschule (scuola interpreti ndr), che allora era in Salvatorplatz, vicino alla Literaturhaus. Il mio titolo di studio purtroppo qui non mi veniva riconosciuto, il che mi ha convinto a riscrivermi all’università. Fortunatamente alcuni degli esami sostenuti mi sono stati comunque riconosciuti, quindi ho dovuto solo integrare il mio corso di studi con due semestri per poter prendere la laurea. Ammetto che con il tedesco all’inizio è stata veramente dura, tanto che per riuscire a passare il mio primo esame, quello di chimica organica, ho imparato tutto a memoria! Poi ho trovato subito una occupazione lavorativa in laboratorio alla Wacker Chemie, importante industria chimica bavarese, e lì sono rimasto per 35 anni. È stato un lavoro meraviglioso: mi occupavo di ricerca e di ottimizzazione dei materiali in laboratorio, insieme ad altri tre “pazzoidi” come me!
Nel frattempo qui a Monaco ha anche trovato l’amore, giusto?
È proprio così. Ho conosciuto mia moglie appena arrivato in città. Lei era una delle cinque figlie della mia padrona di casa, che mi aveva affittato la mia prima camera qui a Monaco, a Kleinhadern. Eravamo davvero giovanissimi: io avevo 25 anni, lei 17. E, come potrete immaginare, all’inizio i problemi di comunicazione erano piuttosto grossi, dato che io non parlavo tedesco e lei non parlava italiano, tanto che ci esprimevamo a gesti. Sono stati momenti di grande frustrazione per me, durante il primo anno è quello che mi ha fatto più male: è davvero terribile non potersi esprimere. Ma questo non ha impedito al nostro amore di nascere piano piano, tanto che, ancora prima che mi laureassi, ci siamo sposati.
Qual è stato l’impatto con la vita in Germania?
All’inizio, come penso per molti nella mia situazione, è stata dura, ma col tempo mi sono talmente immerso nella cultura e nella vita tedesca che per anni ho parlato solo tedesco e non una sola parola di italiano, estraniandomi totalmente dalla politica e dalla cultura del mio paese di origine. Al tempo ritenevo che l’Italia fosse stata “matrigna” con me, che avesse tradito le mie aspettative, e, al contempo, sentivo attorno a me l’abbraccio della Germania come quello di una madre adottiva ospitale e rassicurante, una seconda patria che mi ha accolto, sfamato, dato lavoro e in cui ho trovato l’amore. Ai miei figli tuttavia ho insegnato anche l’italiano: lo capiscono alla perfezione, anche se poi rispondono in tedesco. Anche mia moglie è come se fosse mezza italiana, anzi, mezza napoletana, dato che parla benissimo il dialetto partenopeo!
Cosa l’ha colpita di più in negativo e cosa in positivo, una volta arrivato qui?
Come per molti, l’impatto peggiore l’ho avuto col cibo, si figuri se non poteva essere così per un napoletano! In positivo mi hanno invece colpito l’ordine e la disciplina, dalla scala mobile alla fila alla posta. Non ci ero davvero abituato.
A quali ricordi associa la partenza dall’Italia e l’arrivo in Germania?
Per me la partenza da Napoli è racchiusa nell’immagine di mio padre che piange alla stazione: proprio lui che non piangeva mai e che non ha pianto nemmeno quarant'anni dopo, quando è morta mia madre. Ho poi ben nitida davanti a me, quasi come il fotogramma di un film, l’immagine del caffè Massimo (ora non esiste più), a Hauptbahnhof Süd (stazione centrale sud, ndr), dove ho preso il mio primo caffè tedesco: inutile dirlo, era terribile, anche senza considerare che venivo dalla città in cui si beve il migliore caffè al mondo! Al caffè collego inoltre l’immagine di mia moglie che, ancora ragazzina, me lo serve nella casa in cui vivevo in affitto dalla madre. Inavvertitamente ne ha versato una goccia sul piattino e con una salvietta l’ha subito pulito, chiedendomi scusa. Ci teneva a fare bella figura, e la sua attenzione e timidezza mi hanno subito colpito.
Lei in quegli anni ha visto una Monaco molto diversa da quella che siamo abituati a vedere oggi.
Sì, è così. Pensi solo che ho fatto ancora in tempo a vedere negli anni Sessanta Gastarbeiter italiani vivere nelle baracche di Ludwigsfeld, che erano parte del campo di concentramento di Dachau.
Ci dica la verità: da cosa si sente più plasmato nella sua formazione, dalla cultura italiana o da quella tedesca?
Quando mi chiedono se mi sento più italiano o tedesco, io rispondo: “la mia patria è la cultura”. Sono un topo di biblioteca e mi sento in costante ricerca di collegamenti tra le due culture, attraverso personaggi della politica, etica, storia, filosofia della storia, arte. È questo quello che più mi interessa. In questi giorni, ad esempio, sto leggendo il carteggio tra Benedetto Croce e il filologo e italianista tedesco Karl Vossler. A proposito, lo sa che ho avuto modo di conoscere personalmente Benedetto Croce? Fu grazie a mio padre, comunista, filosofo, elettricista, che faceva lavoretti per il suo studio. Un giorno mi disse: “Andiamo nello studio del professo’, ma mi raccomando, non fare capricci, che è un po’ burbero!”. Lo accompagnai piuttosto timoroso in questo posto, buio e pieno di libri. “Don Raffaele, qui c’è una lampada che non funziona”, lo apostrofò il professore al nostro arrivo, così mio padre si mise subito a ripararla. Nel frattempo Croce mi offrì una mela, che io rifiutai, per troppa timidezza. Solo da giovane studente scoprii con chi avevo avuto a che fare… Fu una cosa di pochi minuti, ma non la potrò mai scordare.
Per concludere, quali sono i progetti per futuro?
Io non posso vivere senza le mie visioni, questo mia moglie lo sa bene e a volte tra noi è causa di conflitti. La prima: sono andato alla Dante Alighieri per portare un po’ di italianità e ci sto riuscendo, ma sarebbe auspicabile che più italiani la frequentassero. La seconda: vorrei organizzare tre o quattro volte l’anno degli incontri lì con persone interessate a parlare di tutto – dove, come dicono i tedeschi, “wir sprechen über Gott und die Welt” (parlare di tutto, ndr) – magari organizzando serate tematiche di stampo culturale, che rappresentino momenti di incontro tra tedeschi e italiani. Qualcosa di simile lo fa già il mio amico Giulio Bailetti con i suoi “Incontri di letteratura spontanea”, e per questo vorrei convincere il consiglio il direttivo della Dante Alighieri a sponsorizzare le sue iniziative, che sono davvero interessanti. La Maratona manzoniana, che abbiamo organizzato a marzo alla Dante Alighieri è stato un bellissimo evento, tanto che l’anno prossimo ne faremo un’altra dedicata al Gattopardo di Tomasi di Lampedusa.
Ne sono sempre più convinto: la cultura e la socialità sono le uniche vie per unire i popoli.