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Mal di Sardegna

Alla scoperta del nuovo cinema sardo

Ab dem 3. Dezember findet im Münchner Filmmuseum eine Ausstellung über Sardinien statt. Der Veranstalter Circolo Cento Fiori e. V. präsentiert eine Vielzahl bis dato noch unveröffentlichter Bilder, welche die Traditionen der Insel in prächtigen Farben zeigen.

Marco Armeni

Un modo di dire, molto diffuso e un poco retorico, sostiene che chi viene in Sardegna piange due volte: una volta quando si arriva, e un’altra volta quando si va via. Al netto della banalità, si parla di chi in Sardegna ci viene per lavorare o, in generale, per viverci; non quindi dei milioni di turisti che la invadono durante l’estate, e poi la lasciano, insieme alle luci dei riflettori, a decantare attraverso stagioni mai troppo fredde.
Eppure, sebbene con ritmi lenti, la vita continua in Barbagia, in Gallura, nel Campidano, in Ogliastra, e solo a Cagliari e a Sassari, le uniche vere città, un po’ di frenesia si mantiene durante tutto l’anno, ma con moderazione: sempre provincia si è, a volte con la sindrome dei figli di un dio minore.
In fondo, i numeri sono molto spesso la spiegazione più lampante: la Sardegna è grande quasi quanto la Sicilia, per estensione del territorio è la terza regione italiana, ma ha solo 1.662.000 abitanti (la Sicilia ne ha il triplo), per la metà circa concentrati proprio intorno alle aree urbane di Cagliari e Sassari. E dunque, chilometri di coste incontaminate, e migliaia di ettari conosciuti e percorsi, soprattutto in passato, solo dai pastori con i loro sterminati greggi di pecore o capre.Ed è proprio dal mondo pastorale, dalla sua società e dai suoi codici (celeberrimo è il codice della vendetta barbaricina, felicemente descritto dal giurista Antonio Pigliaru) che prende spunto un giovane documentarista siciliano, Vittorio De Seta, nel delineare con efficacia l’aspra vicenda narrata in “Banditi ad Orgosolo”, opera del 1961 che viene qui riproposta nella versione restaurata del 2005.

Da quel momento in poi, e per più di vent’anni, la Sardegna è solo set occasionale (con la pur importante eccezione di Padre Padrone dei F.lli Taviani), ma mai protagonista; quanto poi a registi che siano nati o si siano formati in Sardegna, quasi neanche a parlarne.

Poi, improvvisamente, e per percorsi difficilmente riconducibili ad un’unica strada, sono venuti fuori, e ancora oggi sono ben presenti, una serie di giovani, e meno giovani, cineasti.

Alcuni di questi, Antonello Cabiddu, Piero Sanna e Antonello Grimaldi, sono ospiti con loro opere in questa rassegna; altri (Pau, Pitzianti, Mereu, Livi, Columbu, e spero di non avere dimenticato nessuno) si sono già più volte affacciati nel mondo dei 35mm, con alterne fortune (e alterno talento…).

Questo gruppo di registi, venuti fuori tutti insieme, ma che pure si muovono individualmente (e quella dell’ individualismo, quasi autolesionistico, è ed è stata una  “qualità” costantemente riconosciuta ai sardi) ha certo in comune, oltre che un amore profondo per la propria terra, anche la tenacia e il sacrificio di dovere lottare, più degli altri, per fare cinema, e per farlo in Sardegna.

Tutto sta “in Continente” (come si chiama da noi lo “Stivale”): le case di produzione, la distribuzione, i capitali e, spesso, anche gli attori; ecco che allora questi film nascono spesso su gambe traballanti, non vengono distribuiti o hanno una distribuzione molto limitata.

E, talvolta, è il regista stesso, con feroce determinazione, e investendo tempo e denaro propri, che si incarica di girare per festival e rassegne, felice di riuscire a fare vedere una Sardegna che non è la Costa Smeralda e la patetica parata di ricchi, arricchiti, starlettes e sedicenti vip.

E poi c’è la questione della lingua, “Sa Limba”, che, tanto per cambiare, ancora stenta ad avere unanime riconoscimento, ma soprattutto, è ben lungi da trovare una chiara definizione: va bene parlare di lingua, e non dialetto, ma di quale stiamo parlando? Della parlata campidanese? Del barbaricino? Del gallurese? E come dimenticare il catalano degli abitanti di Alghero e il tabarchino di Carloforte e Calasetta?

Anche qui soccorre la saggezza popolare con il detto “Kentu concas Kentu berrittas”, che vuol dire cento teste e cento cappelli (e opinioni) diverse….

Per fortuna però le attuali possibilità di accedere e scambiare informazioni in maniera più rapida ed efficace, sia attraverso il web, sia, materialmente, con la possibilità di trovare qualche forma di aiuto e collaborazione anche attraverso le istituzioni, fanno ben sperare che il sacrificio e il talento di questi registi non rimanga un fuoco di paglia.

Certo, alcuni di loro hanno già lasciato da tempo l’Isola, ma questo non vuol dire avere perso la propria battaglia; anzi, per alcuni si è aperta anche la strada del cinema dei grandi numeri (senza però rinunciare alla qualità, ed è l’esempio del “Caos Calmo” di Grimaldi), o della tanto vituperata, spesso al di là dei suoi effettivi demeriti, produzione televisiva.

In questo confronto, ritengo debba giocarsi la partita per la sopravvivenza, e la crescita di una scena cinematografica che possa definirsi sarda: fare esclusivo riferimento a “su connottu”, ovvero al patrimonio di conoscenze e tradizioni del passato, non può bastare.

La Sardegna da raccontare oggi non è solo pastorizia e faida, ma è anche la storia delle cooperative di pescatori raccontate dalla Guzzanti, e di speculazioni edilizie, di politici corrotti, di delinquenza giovanile; sapere raccontare anche questo, senza dimenticare la nostra peculiarità, è la sfida per il futuro.

E certo le storie non mancano, considerato anche l’attuale copiosa produzione letteraria “made in Sardinia”; ma questa, forse, è un’altra storia.


(2008-4 pag 40)

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