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Categoria: Turismo
Pubblicato Martedì, 07 Dicembre 2010 10:01

La neve è sciolta e l’erba spunta

L’arrivo della primavera secondo le usanze popolari cimbre

Die Zimbern sind ein germanisches Volk, das sich im zweiten Jahrhundert nach Christus unter anderem in Südtirol-Trentino und in Venetien niedergelassen hatte. Mancher Brauch wie das Frühlingsfest erinnern an jene Zeit und sind noch lebendig.

Sasha Deiana

Schella, Schella Märzo

Snea dehin

Gras deher

Alle de dillen leer

Benne der kuko kuket

plűnet der balt

bear lang lebet

sterbet alt.

(Suona, suona marzo,

la neve è sciolta,

l’erba spunta,

i fienili son tutti vuoti.

Quando il cuculo canta,

fiorisce il bosco,

chi vive a lungo,

muore vecchio.)

L’arrivo della primavera ha sempre rappresentato motivo di grande entusiasmo popolare e festeggiamenti folcloristici: l’aumento delle temperature, l’allungarsi delle giornate e il conseguente risveglio della vegetazione circostante stimolano nell’essere umano un gradevole senso di gaudio e beatitudine.

Molte popolazioni, soprattutto nell’antichità, rendevano omaggio all’arrivo della primavera attraverso rituali e usanze consolidate nel tempo che andavano rigorosamente rispettate nelle stagioni prestabilite.

I Cimbri, popolazione di origine germanica che nel II secolo a.C. invase l’area settentrionale dell’Italia, si distinsero per il rigore con cui seguivano i riti e per le sinergie che riuscivano a creare col mondo contadino. Essi si stanziarono nell’area che oggi è rappresentata dal confine tra la regione Veneto e il Trentino Alto Adige: trovarono rifugio in quella porzione di terra che in seguito fu denominata “dei sette comuni” (Altopiano di Asiago – De Tzimbar von Siben Komoinen, nella provincia di Vicenza), nelle zone boschive della Lessinia veronese e nella parte meridionale del Trentino. In alcune di queste aree si possono ancora riscontrare somiglianze con la “tribù” cimbra.

I festeggiamenti avevano inizio il 25 febbraio e terminavano col primo giorno di marzo.

Protagonisti incontrastati dell’evento erano naturalmente i bambini che, dal terzultimo giorno del mese, si aggiravano per le strade e i vicoli del villaggio richiamando la bella stagione con sonagli, campanelle ed altri strumenti il più roboanti possibile.

Lo scampanellio era rivolto alla “Madre Terra” affinché si mettesse in movimento e permettesse la fioritura del dente di leone, primo ortaggio primaverile indispensabile al nutrimento dell’uomo nelle zone montane.Uno dei detti popolari tipici, durante la fine dell’inverno era: Fora febraro che marzo è qua, ciapemo la vecchia butiamola nel prà! ossia “fuori febbraio, è arrivato marzo, afferriamo la vecchia e buttiamola nel prato affinché lavori”: il vecchio anno doveva servire quello nuovo. L’anziana, in questo caso, non era sinonimo di saggezza ed equilibrio come spesso avveniva nelle piccole comunità contadine, al contrario rappresentava qualcosa da cui doversi liberare per poterlo sostituire al “nuovo”. Nella cultura cimbra il rispetto per il prossimo e soprattutto per la figura femminile era di fondamentale importanza, nonostante ciò l’anziano, in questo periodo dell’anno, era associato al rigido e duro inverno appena trascorso che “moriva” definitivamente quando spuntava l’erba nuova.In concomitanza con le usanze primaverili aveva luogo “il matrimonio della sposa di marzo”, in alcune aree si trattava di una tradizione simbolica, in altre invece assumeva una parvenza reale. Le ragazze desiderose di prendere marito approfittavano realmente di questa particolare tradizione per accasarsi. Secondo alcune testimonianze era uso, fino ad alcuni decenni fa, che giovani donne e uomini (in età matrimoniale), il 28 di febbraio, si dividessero in due gruppi e, dopo aver raggiunto la cima di due distinte colline prossime al villaggio, gridassero a gran voce la propria disponibilità alle nozze. Ad aprire i giochi era solitamente il gruppo delle giovani: Tra marz e feverar ghe na bela puta da maridar (tra febbraio e marzo c’è una bella ragazza da sposare), Chi ela? Chi no ela? (chi è? chi non è?), replicava l’altro gruppo, a questo punto la pretendente scandiva il proprio nome e, alla richiesta di chi fosse il fortunato, a chi ghe la dente, a chi no ghe la dente? (A chi la si da? A chi non la si da?), la giovane rispondeva col nome del ragazzo desiderato.

L’usanza assumeva sfaccettature diverse a seconda del luogo: in alcune zone della Folgaria, per esempio, erano nominate solo le coppie di innamorati. Dopo la chiamata del fidanzato, a diventare protagonisti erano sonagli, coperchi di pentole e pezzi di latta che, percossi tenacemente con un bastone, procuravano un chiasso infernale. Durante il rito veniva acceso un fuoco che ardeva sino a sera, in questo modo si “bruciava” l’ultimo mese invernale dando il benvenuto al tanto atteso marzo con le sue temperature miti ed i nuovi prodotti della terra.

Anche nelle aree di insediamento cimbro, il 14 febbraio era festeggiato San Valentino. In uno dei 7 comuni vicentini, Roana, San Valentino era il protettore dell’epilessia (pösar beatak), era chiara l’etimologia popolare per l’assonanza con la parola fallen. Quando arrivava il giorno di San Valentino la raccolta del legname doveva essere finita, poiché la slitta, che rappresentava l’unico mezzo da traino utile, sarebbe diventata inutilizzabile dopo pochi giorni: secondo la tradizione, infatti, nei comuni che formano l’Altopiano di Asiago, otto giorni prima o dopo San Valentino inizia il disgelo, compromettendo i trasporti pesanti da una zona all’altra delle valli.

Festività particolarmente sentita, come ai giorni nostri, era naturalmente il Carnevale. Essa risale al Paleolitico, quando gli stregoni indossavano maschere durante i riti magici e propiziatori. Nell’antichità si festeggiava l’arrivo della primavera con feste che avevano lo scopo di accattivarsi le divinità assicurandosi un buon raccolto. Nel periodo greco-romano, invece, la cerimonia (che era strettamente legata agli aspetti religiosi pagani), avveniva lungo le strade delle città in onore degli dei, in questo caso le maschere erano utilizzate per allontanare gli spiriti maligni. Simili manifestazioni rituali si potevano ritrovare, sino ad alcuni decenni fa, nei carnevali tradizionali lessinici. In particolare a Giazza (Ljetzan in cimbro), località situata in Val d’Illasi, dove il carnevale fu realizzato nella forma tradizionale sino alla fine degli anni ’60.

I giovani si mascheravano da goffi anziani (detti tzakilj cioè “straccioni”), utilizzando stoffe o pezzi di cartone dipinti con grasso e fuliggine, indossando abiti logori e pelli di capra attorcigliate attorno al collo. Alcuni adagiavano sul capo delle corna di vacca per suscitare ancora più ilarità.

Per una buona riuscita dell’evento era indispensabile conservare l’anonimato, al punto tale che, durante la camminata, si evitava addirittura di proferir parola per non essere riconosciuti.

La figura principale era denominata Il Lacchè, il quale si distingueva dagli altri per il candido colore del travestimento. Egli aveva il compito di impartire ordini agli altri partecipanti del corteo, cercando di mettere in ridicolo i malcapitati scelti tra la folla, in particolare coinvolgendoli in balli imbarazzanti e clauneschi. Le danze erano scandite dai suonatori che accompagnavano la manifestazione suonando la fisarmonica (pfaifer) e percuotendo i catini di legno che originariamente erano utilizzati per la preparazione del burro.

Immancabili erano le pietanze tipiche tra cui gli gnocchi (Nocken), il riso, le patate, pasticcini e dolciumi di ogni genere senza dimenticare naturalmente le caratteristiche frittelle (fritole).

Verso metà primavera aveva luogo una delle festività più tradizionali per l’Altopiano di Asiago. Si tratta della festa di San Marco (patronato della Repubblica di Venezia) che cadeva il giorno 25 di aprile.

Secondo il credo popolare, durante la notte, il Santo (rappresentato come un gigante dai pesanti zoccoli di legno) vagava attraverso le strade della Repubblica, mentre i bimbi, incuriositi ed impauriti, si affacciavano alle finestre per assistere al suo passaggio.

Durante il giorno era usanza che i giovani del paese donassero alle proprie amiche i kűklen, caratteristici fischietti a forma di volatile solitamente fatti in argilla decorata: quest’ultime ricambiavano con uova colorate di rosso e azzurro che simboleggiavano la fertilità, l’amore e la vita rinnovata.

Negli ultimi anni molte tradizioni regionali del nostro Paese sono state perdute, talvolta lasciando spazio a celebrazioni e festività che non appartengono nemmeno alla nostra storia e che trovano una risposta soltanto nel sistema consumistico.

Nonostante ciò gli abitanti delle aree sopra descritte, forse anche per una questione logistica (spesso si tratta di superfici circoscritte da catene montuose che distano parecchi chilometri dai grossi centri abitati), riescono a mantenere vive le tradizioni dando la possibilità, anche a chi non conosce le realtà locali, di assistere a usanze e riti che hanno contribuito a creare quel patrimonio culturale che per secoli ha caratterizzato le contrade e i rioni delle nostre province, scandendo le festività e permettendo alla comunità di aggregarsi.

2009-1 pg27


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