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Categoria: Turismo
Pubblicato Sabato, 04 Dicembre 2010 14:59

Avventure di viaggio

Scoprire l’Italia alla fine dell’Ottocento, quando il turismo era esperienza di vita

Reisende, die Ende des 19. Jahrhunderts die italienische Halbinsel erkundeten, hatten im Vergleich zu Touristen von heute mit schwierigen Bedingungen zu kämpfen, die in unserer Zeit kaum vorstellbar sind.

Alessandro Gambaro

 

Tutti ricordiamo di aver letto, da ragazzi, libri di avventure di viaggio: ed erano anche avventure “durante” il viaggio, non soltanto all’arrivo: il viaggio in sé era avventura, era scoperta, era vita.
La mia avventura di viaggio - peraltro solo letteraria - comincia mentre siedo comodamente cullato dall’eurostar lungo il tragitto tra Genova e Roma: leggo la “Nuovissima Guida d’Italia”, pubblicata a Venezia da Colombo Coen editore nel 1876, che apre con il classico “ L’Italia è una penisola circondata a settentrione dalle Alpi; ad occidente e a mezzodì dal Mediterraneo, e a levante dal mare Adriatico, detto anche Golfo di Venezia” e poi prosegue descrivendo i diversi percorsi che dai confini del nord portano verso sud.

Partiamo con un’osservazione un po’ preoccupante circa l’ingresso in Italia attraverso il passo del Sempione: “il tratto di strada tra la quinta casa rifugio e la vetta è il più pericoloso all’epoca delle valanghe e degli uragani, perciò lungo uno spazio di meno di una lega trovansi stabiliti sei rifugi ed un ospizio. Il passo del Sempione è alto 2021 metri sul livello del mare…”

E non meno arduo sembra il percorso per chi giunge da “Innspruck” per il passo dello Stelvio: deve scendere
“alla Cantoniera al giogo di Santa Maria (2538 m.), dogana italiana situata appena 276 metri al disotto della cima del varco dello Stelvio. Di qui a Bormio i vetturali non impiegano più di due ore. Un sentiero da mulattieri, discretamente scosceso era, tempo fa, la sola via di comunicazione fra Vintschgau e la Valtellina…”

Molto più agevole il passaggio per il Brennero: “ la strada ferrata, aperta al pubblico il 17 agosto 1867… conta su tutta la linea 28 gallerie e va da Innspruck a Botzen in 5 ½ o 6 ½ ore, e altre 5 ½ o 6 ½ da Botzen a Verona.”. Mentre “da Trieste, città della monarchia Austro-Ungarica” si arriva a Venezia in ferrovia, passando per Udine: 214 Kilometri in 10 ore.

Anche l’ingresso da Nizza “caratteristicamente italiana, ceduta alla Francia il 24 marzo 1860” è per ferrovia, “ma il percorso non presenta le magnifiche vedute di cui si gode ad ogni tratto percorrendo l’antica strada postale detta della Cornice situata lungo le alture…”. Avvicinandosi a Genova, il treno ottocentesco supera San Remo, Oneglia (che non si chiamava ancora Imperia), e giunge a Cogoleto che “si crede patria di Cristoforo Colombo”; e la casa ove si dice sia nato - ricorda la mia guida - porta un’iscrizione latina che termina così: “Unus erat mundus, - duo sunt - ait ille, fuere”, cioè “il mondo era uno, - sono due - egli disse: furono due”. Non è poco, francamente…

E adagio adagio, via via che la lettura prosegue, di pagina in pagina, l’ovattato ronzio dell’eurostar che scivola leggero sui binari lascia lentamente il passo allo sbuffare ansimante e allo sferragliare dell’antico treno a vapore.

La ferrovia aveva ormai cambiato radicalmente i modi e i tempi del viaggio, rispetto all’epoca della diligenza: fino a pochi anni prima, da Bologna a Firenze (poco meno di 100 chilometri di percorso montano) occorrevano due giorni di viaggio; da Firenze a Roma (230 chilometri) erano quattro o cinque i giorni di viaggio, e non c’è dubbio, come dice Stendhal nelle sue “passeggiate Romane” del 1827, che c’era tempo per diventare buoni amici del vetturino e degli altri ospiti della carrozza. D’altronde il vetturino si incaricava, con un contratto ben preciso, di assicurare i pasti e il pernottamento dei viaggiatori alle stazioni di posta: nel contratto veniva specificato, ad esempio, che si avrebbe avuto diritto al “posto buono”, cioè in fondo alla vettura, e si sarebbe dormito in un letto da solo (e questa mi pare una clausola di grande valore).

Ma tra Genova, “che Magone, fratello di Annibale, con una flotta sorprese e distrusse da cima a fondo...” e Livorno il viaggio doveva proseguire per nave (partenze alle ore 11 tutti i giorni eccetto la domenica, con prezzo di lire 32,50 in prima classe e 22,50 in seconda). Indubbiamente il fatto che la guida del 1876, tra Genova e Livorno, proponga soltanto il transito per nave induce a ritenere che la linea ferroviaria, in quell’anno, non fosse ancora completamente percorribile, soprattutto, credo, per le difficoltà incontrate nell’attraversamento delle Cinque Terre, quasi tutto in galleria.

Tra Livorno e Civitavecchia si ripropone la ferrovia, e i colori chiari e anonimi della moderna vettura-self service dove sto sorseggiando un triste caffè senz’anima, sono, nella mia mente di viaggiatore-lettore, gradualmente sostituiti dall’arredamento di legni e velluti del treno a carbone, il quale in sole 7 ore e 35 minuti copriva i circa 250 km del percorso e, superato “il celebre pellegrinaggio, in ispecial venerazione presso i marinai della Madonna del Montenero… Si arriva in brev’ora a Follonica, in vicinanza del mare, piccola città deserta durante l’estate; vi si lavora il ferro dell’isola d’Elba ”. Sembra il mondo visto allo specchio: Follonica deserta d’estate? Quando è in pieno la stagione balneare ? Già, ma allora non c’era ancora la stagione balneare: allora si lavorava il ferro dell’isola d’Elba…

Tuttavia, volendo, si poteva andare da Livorno a Civitavecchia anche per mare, oltre che in treno. In effetti la guida del 1876 descrive il viaggio per mare come un’esperienza da turista raffinato: “Sortendo dal porto di Livorno si vede all’occidente l’isola di Gorgona; il battello si dirige verso mezzodì; in breve scorgonsi l’isola di Capraja (con la j come si usava allora) e più lungi i contorni della Corsica; all’est si è sempre in vista della costa e degli Appennini. Si passa quindi fra la Punta di Piombino e l’isola d’Elba. Seguono le isole di Palmajuola (che noi oggi chiamiamo banalmente Palmarola) e Cerboli; bellissimo colpo d’occhio sugli isolotti rocciosi muniti di fari. Più lungi si passa dinanzi alle isole di Pianosa, Giglio, e Argentaro; poi viene la piccola isola di Giannutri. Si vede lontano dinanzi a sé Civitavecchia in una aggradevole postura sul fianco della collina”.

E pare di udire ancora il ronfare cupo delle caldaie e lo sciabordio delle onde contro le murate del battello. Il viaggio per mare durava una notte, secondo la testimonianza dello storico tedesco Ferdinand Gregorovius, e quasi sicuro offriva maggiori agi di quelli che si potevano trovare su di un fumigante e traballante treno a carbone. Il quale tuttavia consentiva di proseguire da Civitavecchia il viaggio fino a Roma, giungendo alla nuova stazione Termini, da poco inaugurata, in sole due ore e mezzo.

“Questa capitale del mondo antico… non ha ora che 217.278 anime di popolazione fissa, di cui 7.378 sono addette al culto; gli ebrei sono in numero di 4.862…”

E in questa Roma vuota, in cui i palazzi nobiliari sono spesso affiancati da vaste aree archeologiche abbandonate o destinate al pascolo, ecco lo scalpiccio dei cavalli e il rotolio delle carrozze e degli omnibus sull’acciottolato cittadino, (dalla stazione Termini delle ferrovie ai principali alberghi centesimi 75, bauli, casse e valigie centesimi 50 ciascuno).

Ma la guida che sto leggendo non manca di descrivere anche l’ingresso a Roma in carrozza: “La Storta è l’ultima stazione di posta prima di Roma, la campagna conserva il suo aspetto desolato, nella quale non si vede qua e là che una torre rovinata del medio evo, un sepolcro romano distrutto ed un miserabile cascinale, ma nulla che annunci la vicinanza dell’antica capitale del mondo. Oltrepassato un monumento funerario ordinariamente, ma a torto, chiamato sepolcro di Nerone, si arriva alle sponde del Tevere e la carrozza si dirige in linea retta tra muricciuoli di giardini monotoni verso Roma, in cui entra per la Porta del Popolo.”

All’epoca della mia guida, Roma aveva “12 porte aperte e la principale è Porta del Popolo, vicino all’antica Porta Flaminia” che si apre sulla Piazza del Popolo “di forma ellittica, decorata al suo centro da un obelisco alto 24 metri, fatto trasportare da Eliopoli da Augusto e rizzato da SistoV”. Allora l’obelisco costituiva il limite inferiore del Corso Mascherato che si svolgeva per il Carnevale, come Palazzo Venezia ne costituiva il limite superiore, a una distanza di oltre 3.500 passi. Ma la via del Corso, era animata anche tutte le domeniche e le feste dell’anno: “I nobili e i ricchi – dice Goethe, nel suo Viaggio in Italia di quasi un secolo prima – vanno su e giù in carrozza in lunghe file per un’ora, un’ora e mezza, innanzi notte; le vetture scendono da Palazzo Venezia tenendo la sinistra, e sfilano dinanzi all’obelisco (…) quelle che ritornano tengono la destra e così le due file passano una accanto all’altra nel massimo ordine.” “Gli ambasciatori hanno il diritto di andare su e giù tra le due file… Non appena suonano le campane della sera quest’ordine viene interrotto: ognuno va dove gli pare e piace per la via più breve, spesso disturbando un gran numero di altri personaggi, che son costretti a fermarsi e a restar prigionieri nel breve spazio”

E così abbiamo imparato quale lunga e nobile ascendenza storica possano vantare gli inestricabili ingorghi stradali romani del giorno d’oggi.

Ma intanto il mio Intercity (prima era un Eurostar), superata la stazione Ostiense, si avvicina cautamente alla stazione Termini, e a me non resta che interrompere la lettura della mia guida osservando con curiosità un “Nota Bene: Dopo la caduta del Governo Pontificio non si può più visitare il Vaticano senza uno speciale permesso…” Ah, già! Roma era diventata capitale d’Italia soltanto da sei anni e soprattutto non erano ancora tempi di turismo di massa.


(2008-1 pg 12)

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