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L'ennesimo profeta

Lettres italiennes

Corrado ConfortiCola di Rienzo, come raffigurato nel monumento ottocentesco al lato della Cordonata, a Roma (Wikipedia.it)

Monaco, 8 marzo 2013.
Nell'aprile o forse nel maggio di settecento anni fa nasceva a Roma, da un taverniere, Lorenzo (Rienzo), e da una lavandaia, Maddalena, un uomo che per alcuni anni avrebbe sconvolto la vita di quella che era stata la capitale del mondo e che, in quel lontano 1313, era poco più di un villaggio di case basse sparse fra le rovine del suo straordinario passato. Al bambino venne dato il nome di Nicola, e poiché all'epoca il cognome era costituito dal solo patronimico, il futuro tribuno sarebbe stato conosciuto come Cola di Rienzo, e con tale nome sarebbe passato alla storia. In quell'anno le condizioni di Roma erano assai miserevoli: una certa rinascita avviata dal giubileo di tredici anni prima era stata bloccata dal trasferimento della sede papale in Francia;

fatto questo che aveva portato a una ancor più cruenta lotta per il potere fra le grandi famiglie baronali: i Colonna, gli Orsini, i Caetani, i Savelli.

Benché di modesta estrazione sociale, Cola poté studiare, rivelando presto i suoi talenti, fra i quali erano un'oratoria trascinante e la capacità di esprimersi e addirittura di comporre versi in latino. Si racconta si aggirasse fra i ruderi romani, che in quegli anni emergevano dappertutto, traducendo le antiche iscrizioni. Ed è assai probabile che proprio fra quelle rovine, confrontando la passata grandezza con la miseria del presente, abbia concepito quel sogno di restaurazione dell'antico splendore che lo spinse al colpo di stato che, ad appena trentaquattro anni, gli consegnò il potere.

La sua acclamazione a tribuno, avvenuta nel giorno di Pentecoste del 1347, era stata preceduta da una sorta di campagna elettorale in cui Cola aveva accompagnato le sue arringhe con l'esposizione di colossali dipinti raffiguranti il suo programma politico. In una città in cui trionfava l'analfabetismo il ricorso alle immagini, appreso da quella grande esperta di comunicazione che era Romana Chiesa, era un mezzo geniale per ottenere il consenso; come geniale del resto era il giorno scelto per il colpo di stato: la Pentecoste, la festa cioè che celebrava la discesa dello Spirito Santo, il più vago degli elementi della Trinità. A tale misteriosa entità, Cola si riferirà per tutto il corso della sua breve carriera politica, giungendo addirittura ad autonominarsi Cavaliere dello Spirito Santo.

L'obiettivo di Cola, forse non del tutto chiaro neanche a lui, era l'abbattimento del feudalesimo; e a tale scopo si adoperò, promuovendo un'alleanza fra i ceti produttivi della città. Un fine così ambizioso e parecchio in anticipo sui tempi (a realizzarlo occorrerà una rivoluzione esportata in Italia dalle armate napoleoniche), richiedeva altri mezzi e soprattutto una visione del mondo che non era e non poteva essere di Cola il quale, uomo della sua epoca, agiva e pensava all'interno dell'universo medievale nel quale era nato, lo stesso che pochi anni prima era stato teorizzato dallo stesso Dante, e nel quale il potere temporale apparteneva all'imperatore.

Fuggito da Roma a poco più di un anno dalla presa del potere, dopo aver rivelato una radicata incapacità di passare dalla predicazione all'azione, Cola vi ritornò sei anni dopo, accolto da una folla festante. Negli anni dell'esilio aveva soggiornato per parecchi mesi fra i frati francescani della Maiella e ne aveva condiviso la visione finalistica della storia, la quale si sarebbe presto conclusa grazie alla venuta dello Spirito Santo. Tali teorie palingenetiche, insieme a un progressivo intorbidimento del carattere e a una perdita della lucidità politica, gli furono fatali. Assediato da quella stessa folla che lo aveva acclamato solo poche settimane prima, Cola cercò di salvarsi con la fuga, ma, riconosciuto a causa della pinguedine e dei braccialetti dei quali non si era privato, fu ucciso sulla scalinata del Campidoglio, mutilato e quindi, dopo due giorni di esposizione, bruciato.

Nemo propheta in patria è detto in tutti e quattro i vangeli. Ma la frase, che forse aveva un senso nell'antica Galilea, a me pare non l'abbia mai avuto in Italia, dove i profeti hanno da sempre un enorme successo; anzi, direi che la gara a chi la spara più grossa, magnificando sorti progressive, sia quasi uno sport nazionale, i cui praticanti vengono, almeno all'inizio, sempre premiati.

Ultimamente è apparso l'ennesimo profeta. Al pari dei suoi predecessori ha proclamato la sua verità e il luogo della sua realizzazione: non più lo Spirito Santo, ma un'entità altrettanto vaga: la rete. Prima o poi sarà costretto anche lui a confrontarsi con la realtà, anche se al momento in cui scrivo cerca disperatamente di fuggirla. Allora i fatti lo smentiranno e le ovazioni si muteranno in insulti. È il destino di tutti i profeti, i quali oggi, grazie proprio a quella tolleranza che non praticano e che anzi disprezzano, evitano la brutta fine dei loro predecessori; ma non un'altra fine per loro forse ancora più indegna: l'indifferenza, l'unico atteggiamento del quale andrebbero invece degnati.

 

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