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Chi deve pagare i costi della "crisi"?

La globalizzazione come arma di ricatto negli accordi aziendali

Die Verlegung von Produktionsstandorten ins Ausland verleiht großen Unternehmen die Macht, Arbeiter zu ungünstigen Vereinbarungen zu zwingen. Das ist Teil des großen Prozesses der Globalisierung, der Ungerechtigkeit fördert. Die Ideologie dieser Entwicklung wurde bereits so verinnerlicht, dass selbst jene, die dadurch benachteiligt werden, diese Geschäftspolitik akzeptieren. So sind z.B. die Arbeiter froh, mit den Unternehmen für sie nachteilige Vereinbarungen bezüglich Lohn und Arbeitszeit schließen zu können.

Cosimo Carniani

Un quotidiano italiano titolava, tempo fa: "Europa, tutele allo stremo. Ondata di accordi aziendali-capestro. La Germania fa da battistrada" e commentava gli accordi aziendali recentemente stipulati dalla Siemens e dalla DaimlerChrysler con i dipendenti di alcuni dei propri stabilimenti tedeschi. Fra i due l’accordo Siemens è quello più svantaggioso per i lavoratori: esso prevede l’allungamento dell’orario lavorativo da 35 a 40 ore senza conguaglio; la sostituzione della tredicesima con un premio di risultato del 45% della retribuzione ordinaria; la riduzione del supplemento per il turno serale. Il tutto in cambio della garanzia occupazionale per due anni.

Perché accettare un accordo cosí svantaggioso? L´accordo implica la libertá dei contraenti, ma in questo caso, a meno di non postulare la follia o lo stakanovismo dei dipenenti Siemens, come si puó parlare di libertá? Certo, la contrattazione fra aziende e dipendenti, cioè fra capitale e lavoro, vede da sempre le prime fortemente avvantaggiate, ma qui colpisce la disparità delle forze in campo. Il ricatto si fonda sulla delocalizzazione, ossia il trasferimento della fase produttiva di un’attività all’estero: minacciando di chiudere le fabbriche per trasferire la produzione in paesi più convenienti, le imprese costringono i lavoratori a cedere alle loro richieste. Nel tempo della globalizzazione le imprese possono produrre in Vietnam, avere sede fiscale alle Bahamas e vendere in Germania con vantaggi evidenti: si continua a vendere allo stesso prezzo, in ricchi mercati, ciò la cui produzione costa molto meno, grazie ai bassi stipendi e alle limitate tutele dei lavoratori che rendono il costo del lavoro assai più basso in alcuni paesi. Grazie poi all’esistenza di paradisi fiscali ed all’assenza di una precisa regolamentazione dei flussi finanziari, le imprese possono più o meno agevolmente aggirare il sistema fiscale pagando le tasse dove più conviene. Se le cose stanno così, le imprese, sfruttando i vantaggi della globalizzazione, dovrebbero arricchirsi enormemente, eppure lamentano sempre una crisi, con la quale giustificano gli spiacevoli provvedimenti che si dicono costrette a prendere, come lo smantellamento di posti di lavoro da trasferire dov’è più conveniente, o l’allungamento dell’orario lavorativo.Il gioco riesce così bene che ci contano anche per il futuro: nello stesso articolo si legge che nel contratto firmato dai metalmeccanici tedeschi nel febbraio 2004 è inserita la cosiddetta "clausola di apertura”, che consente la deroga ai minimi salariali in caso di crisi aziendale. Ma nonostante l’economia mondiale sia effettivamente in crisi, viene da pensare che le grandi imprese siano le meno colpite, proprio per le opportunità che il mercato globale non regolamentato offre loro. E pur supponendo che una crisi le coinvolga pesantemente, è giusto far ricadere i costi sui lavoratori? È conveniente affidare il rilancio dell’economia alla stessa logica che non solo ha prodotto pericolosi squilibri sociali a livello sia nazionale che globale, ma si è rivelata incapace di mantenere le proprie promesse? L’ideologia che difende questa logica di assoluta priorità della questione economica e che vuole il mercato selvaggio, il neoliberismo, non ha già dimostrato la sua pericolosa fallacia? André Gorz notava nel 1997*: «I paesi dell’UE, negli ultimi venti anni, sono divenuti più ricchi in una proporzione che si aggira tra il 50% e il 70%. L’economia è cresciuta molto più rapidamente della popolazione. Nonostante ciò l’UE conta oggi 20 milioni di disoccupati, 50 milioni di poveri e 5 milioni di senzatetto.[...] È noto che negli Stati Uniti lo sviluppo economico ha arricchito soltanto il 10% benestante della popolazione. Questo 10% ha ricevuto il 96% della ricchezza addizionale.[...] In Germania i profitti delle imprese sono cresciuti, dal 1979, del 90%, i salari del 6%. Ma il ricavato delle tasse sui salari, nel corso degli ultimi dieci anni, è raddoppiato; il ricavato delle imposte sul reddito delle società si è dimezzato. Ammonta ancora solo al 13% dell’intero introito fiscale.[...] La maggior parte delle ditte transnazionali comeSiemens o BMW non paga più alcuna tassa nel suo paese...» Il quadro delineato è molto chiaro: anche se l’economia cresce, solo le imprese ed un’esigua fetta di popolazione si arricchiscono; la crescita dei salari è infinitamente minore di quella dei profitti e la disoccupazione non scema, perché le imprese trasferiscono il lavoro all’estero. Esse inoltre, non solo non aumentano il contributo fiscale, ma lo riducono addirittura e lo Stato si vede sottrarre risorse fondamentali, con il risultato che i servizi sociali, l’istruzione, il sistema pensionistico, i lavori pubblici, lo stato sociale in genere, divengono un onere sempre più insostenibile, i cui costi gravano sui cittadini. Quasi ovunque i servizi sociali divengono sempre più cari o vengono ridotti, mentre le imprese che ancora pagano qualcosa chiedono allo Stato ulteriori agevolazioni fiscali e ne condizionano le scelte molto pervasivamente tentando, spesso con successo, di smantellare le tutele dei lavoratori, che per loro rappresentano un intralcio al profitto. Grazie al loro enorme potere economico (si pensi che i bilanci di alcuni Stati del "Sud del mondo” sono inferiori a quelli di alcune imprese) ottengono dagli Stati politiche favorevoli, che vanno a scapito dei cittadini. Per fare un esempio, se una multinazionale vuole aprire una fabbrica nel paese A, ma si accorge che il paese B garantisce ai lavoratori minori diritti ed è quindi più conveniente, essa o sceglie quest’ultimo, oppure convince A ad adeguarsi ai livelli di B pur di non perdere i grandi investimenti, che producono ricchezza (della quale in realtà resta ben poco in loco) e posti di lavoro. Si crea così una specie di asta al ribasso in cui le multinazionali offrono i propri investimenti a chi offre loro migliori condizioni riducendo i diritti dei lavoratori. Inutile direche le nostre società non ne sono affatto immuni, ma devono stare al gioco per vincere la concorrenza dei più "competitivi” paesi poveri. Esse sono, anche se in diversa misura, esposte al ricatto del capitale. Ciò che sorprende è come l’ideologia che fa da facciata ai voraci interessi delle imprese, il neoliberismo, abbia fatto presa su larghi strati della società, che sembrano averne accolto le conclusioni. L’argomento è sempre lo stesso: se le imprese sono agevolate l’economia si sviluppa e il benessere aumenta per tutta la società. Secondo questo principio, si rende il mercato del lavoro più "flessibile” (aggettivo che letto dalla parte del lavoro, anziché del capitale, significa "precario”), si propone di spostare giorni festivi alle domeniche per lavorare di più, si riducono le tutele ed i diritti dei lavoratori, così da eliminare gli ostacoli che intralciano la marcia delle imprese impedendo loro di realizzare quella crescita economica che prima o poi verrà goduta da tutti. Il fatto è che la crescita c’è già stata, solo che la ricchezza non viene equamente distribuita, ed anzi le disuguaglianze si aggravano. Gli squilibri aumentano sia a livello nazionale che globale, e generano tensioni sociali che se qui da noi, almeno per ora, non sono esplose, si manifestano in altri luoghi del mondo in forma violenta, quando non alimentano direttamente sentimenti come la disperazione, la rabbia, l’odio, che costituiscono il miglior brodo di coltura del terrorismo.
Firenze, 20.12.04
*FAZ 1.8.1997 , pag.35

(2005-1 pag 7)

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