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Categoria: Ecologia
Pubblicato Mercoledì, 05 Gennaio 2011 16:16

Piove sempre sul bagnato

Paure e speranze dell’umanità, tra catastrofi naturali, crisi economica e globalizzazione

Die Naturkatastrophen und die Auswirkungen der Globalisierung zwingen zu einer Überprüfung der aktuellen Entwicklungsmunster. Es ist aber nicht klar, wer die notwendigen Maßnahmen treffen sollte und wie. Wir leben im Herzen einer tiefen Krise nicht nur der Ökonomie aber auch der Gesellschaft und der allgemeinen Werte. Kann der heutige Mensch die Angst in Vertrauen verwandeln und erneut hoffen?

Pasquale Episcopo

Piove sulla Theresienwiese e sulle migliaia di pellegrini che partecipano alla messa di chiusura del 2. Ökumenischer Kirkentag. Piove e fa freddo. È domenica 16 maggio 2010, ultimo dei cinque giorni della manifestazione. Festa dell’Ecumenismo, ovvero dell’universalità. Al centro del campo una grande croce bianca. Sul palco, ai canti si alternano i discorsi di laici e ministri delle religioni cristiane, evangelica - cattolica - ortodossa - valdese e quant’altro. Si rivolgono ai fedeli convenuti, ai credenti, ai meno credenti e ai curiosi come me. Parlano alla gente, alle migliaia di famiglie, ai gruppi venuti da tutta la Germania. Ci sono moltissimi giovani.

Li osservo e mi chiedo quali siano i loro pensieri, quali i loro sentimenti, i loro bisogni.

Pioggia e cenere

La primavera 2010 verrà ricordata come una delle più piovose e fredde mai registrate. Alla faccia del riscaldamento globale. Nel mese di maggio a Monaco di Baviera è caduta tanta di quella pioggia come non si ricordava a memoria d’uomo. Fa bene all’agricoltura, ha detto qualcuno, sicuramente non un gestore di Biergarten. In Polonia ci sono state pesanti alluvioni, le più gravi da oltre un secolo. Gli allagamenti hanno interessato anche la Germania e l’Ungheria. In gran parte d’Europa il mal tempo ha causato danni notevoli e vittime. Piove sempre sul bagnato, dice un vecchio proverbio, a significare la tendenza degli eventi a riprodursi, nel bene come nel male, e perfino ad accanirsi, quando la malvagità del caso ci mette lo zampino. Ma non solo acqua è piovuta.

Nell’isola più settentrionale e lontana del Vecchio Continente, l’Islanda, un vulcano dimenticato e dal nome impronunciabile si è risvegliato e ha cominciato a sputare fuoco e cenere. Questa in parte è ripiovuta a terra in parte è rimasta in quota in balia dei venti che hanno soffiato in direzione Sud interessando un’area così vasta da bloccare il traffico aereo di mezza Europa per quasi due settimane. Migliaia di aerei sono rimasti a terra. A terra sono rimasti equipaggi, passeggeri e merci. Ne hanno fatto le spese i pescatori di gamberi in Argentina, i coltivatori di rose in Kenya, i produttori di mozzarella di bufala in Campania. La cenere ha mandato in cenere i conti delle compagnie aeree e di moltissime aziende attive nel commercio internazionale e i cui affari sono strettamente legati al trasporto aereo. Le borse non hanno esitato a reagire in senso negativo. Gli esperti che hanno giocato a fare i calcoli hanno stimato l’ammontare complessivo del danno economico intorno ai 20 miliardi di euro. Una cifra enorme. Niente male per un solo vulcano. Fortunatamente ora si è calmato e si spera che la tregua duri a lungo. Ma la lezione da imparare è stata chiara: siamo in balia della natura. E non tenerne conto vuol dire aumentare i rischi che si nascondono in ogni situazione caratterizzata da incertezza. Cosa che può costarci molto caro. Chi ha costruito la sua casa alle pendici del Vesuvio farebbe meglio a non dimenticare questa lezione.

Olio nero

Agli imprevisti e imprevedibili fenomeni naturali sopradescritti, si sono aggiunti, in questa sfortunata primavera, gli effetti meno imprevedibili, ma ben più disastrosi della mano e della testa dell’uomo. Nel Golfo del Messico si sta consumando una catastrofe ecologica senza precedenti.

Il 20 aprile la piattaforma petrolifera Deepwater Horizon della compagnia British Petroleum (BP) è esplosa e ha preso fuoco. Due giorni dopo si è inabissata. Le cause sono ancora poco chiare, e tuttavia sono emersi particolari inquietanti. L’anello di cemento collocato sul foro di trivellazione del pozzo sottomarino era sottodimensionato e non ha garantito la tenuta della pressione dei gas. Questi sono risaliti sino alla piattaforma provocando l’esplosione e l’incendio. Dal 20 aprile ogni giorno una quantità stimata tra 800.000 litri e tre milioni di litri di olio nero si sono riversati nell’oceano. Il delta del Mississippi, una delle più grandi riserve naturalistiche degli Stati Uniti, è gravemente minacciato e con esso la vita di centinaia di specie animali e l’economia costiera di quella parte dell’America. La grande profondità a cui è stato trivellato il sottosuolo marino, 1500 metri, e a cui è avvenuta la fuoriuscita di petrolio, rende difficile arginare la perdita. Una prima azione, peraltro molto criticata, è consistita nel riversare in mare milioni di litri di solventi. Sostanze chimiche biodegradabili, ma altamente tossiche, il cui scopo è quello di dissolvere il greggio, disperdendolo. Sembra che BP abbia ordinato l’acquisto in blocco di gran parte delle riserve mondiali. Mentre in superficie sono stati usati i solventi, in profondità si è tentato in vari modi di chiudere la bocca del pozzo e fermare la fuoriuscita di greggio. Nel momento in cui scriviamo, sono già stati effettuati tre diversi tentativi, purtroppo senza successo. Non solo, dopo il fallimento del terzo tentativo, la quantità di olio nero che si è riversata in mare è perfino aumentata. Ora si sta eseguendo il quarto tentativo. Ma pessimismo, frustrazione e rabbia non lasciano spazio alla speranza e sono molti, adesso, coloro che credono che la perdita si fermerà soltanto all’esaurimento del giacimento, 4000 metri più sotto rispetto all’apertura del pozzo. Sempre che non si provveda a chiuderlo con una carica nucleare.

Secondo l’italiana Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) è probabile che il giacimento contenga complessivamente 3 miliardi di barili di petrolio, equivalenti a circa 450 milioni di tonnellate. Una quantità impressionante. Si fanno intanto le prime stime dei danni. Anche qui si tratta di miliardi. Miliardi di dollari, nessuno può dire esattamente quanti. Il presidente Obama ha affermato senza mezzi termini che il prezzo economico del disastro dovrà essere interamente pagato dalla BP, ma se la compagnia petrolifera britannica continuerà a precipitare in borsa come è  successo dal giorno dell’incidente (a tutt’oggi ha già perso un terzo del suo valore), è improbabile che sarà in grado di farlo. La questione è però un’altra.

La questione è se sia lecito e giusto ridurre ogni cosa ad un conto economico, a un bilancio di numeri, ad un flusso di cassa, o se invece non si debbano considerare altre variabili, meno misurabili forse, ma non per questo di minor valore. Al contrario. Variabili dal valore così alto da essere inestimabile. Su tutta questa drammatica vicenda incombono molteplici interrogativi, uno però prevale sugli altri: che conseguenze avrà l’inquinamento sulla salute del pianeta? La dimensione della catastrofe è tale da farci porre fin da ora la questione se l’enorme macchia di greggio rimarrà localizzata, o se si allargherà. Se a contribuire all’allargamento non potrà essere la Corrente del Golfo, che nasce proprio nel Golfo del Messico e che trasporta acqua tiepida fino al Nord Europa, mitigandone il clima. Quando i solventi chimici avranno scomposto la struttura del greggio e lo avranno disperso, non ci sarà da meravigliarsi se sciami di miliardi di invisibili particelle di olio nero invaderanno l’Oceano Atlantico fino a giungere sulle coste settentrionali dell’Europa e chissà dove ancora.

Globalizzazione

Cenere dal cielo e greggio dal mare: a quanto pare la globalizzazione prima che dall’uomo è stata inventata da Madre Natura. Che l’impatto dell’azione dell’uomo sugli equilibri naturali abbia una portata globale è cosa ormai accertata. Il tubo di scappamento della nostra auto contribuisce a cambiare il clima sulle nostre teste come su quelle di chi vive dall’altra parte del mondo, che probabilmente un’auto nemmeno ce l’ha. Tutto questo lo sappiamo bene e tuttavia non rinunciamo all’auto. Ma quel che è più grave è che non rinunciamo a intraprendere attività che comportano rischi ben più alti per l’umanità intera. È evidente che se continuiamo a trivellare il fondo marino a profondità sempre maggiori, la capacità di contrastare efficacemente i rischi di un incidente diventa minore. Ovviamente, un criterio elementare di prevenzione sarebbe quello di sovradimensionare gli impianti. Una cosa che la BP deve aver sottovalutato. Ora sta pagando l’errore e rischia di essere fagocitata dal cinismo dei mercati. Ma a farne le spese sarà soprattutto la collettività. Sovradimensionare gli impianti è una misura tecnica imprescindibile quando rischi e  incertezze sono alti. Ma non sempre basta. Pensiamo ad esempio alle centrali per la produzione di energia nucleare.

Una centrale sicura al 100% non esiste. Si dirà che oggi la tecnologia consente di raggiungere standard di sicurezza impensabili soltanto un quarto di secolo fa, al tempo dell’incidente di Chernobyl. Questo sarà anche vero, ma rimane il fatto che alla pur bassissima probabilità che un incidente occorra, può corrispondere un effetto catastrofico per l’umanità intera. Molti ricorderanno i giorni da incubo che seguirono quell’incidente, quando una nube radioattiva si sollevò e gironzolò su vaste zone dell’Europa e dell’Asia. Se lo ricordano sicuramente coloro che hanno pagato il prezzo più alto. Un prezzo che nessun conto economico può adeguatamente rappresentare.

Pur prestandosi a spiegare la portata delle alterazioni causate dall’uomo sui delicati equilibri dei fenomeni naturali, la parola globalizzazione è nata in un contesto più spiccatamente socio-economico. La sua origine storica è coincisa con il progressivo allargamento delle relazioni internazionali, sulla spinta di sempre maggiori interessi economici.

Il 28 maggio l’azienda americana Apple ha avviato le vendite in Europa del suo ultimo prodotto, l’iPad. Un concentrato di tecnologia, combinazione perfetta di hardware e di software, che si aggiunge ad altri prodotti come iPod e iPhone, tutti altamente innovativi e che hanno sfondato i mercati mondiali. Solo qualche giorno prima era uscita la notizia che la Apple ha superato la Microsoft per valore di capitalizzazione in borsa ed è diventata la prima azienda hi-tech americana e nel mondo. Se prendiamo in mano un iPod sul retro leggiamo che è stato assemblato non negli USA, ma nel Paese che è diventato la fabbrica del mondo, la Cina. La Cina ha infatti ancora un costo della manodopera e salari molto bassi e per questo motivo riceve lavoro da Europa e America  e cresce a ritmi del 10% annuo. Un ritmo di crescita che riguarda un miliardo e mezzo di individui, i cui governanti dopo la fine del comunismo hanno scelto la via dell’economia di mercato adottando il modello di sviluppo occidentale. Quello stesso modello che oggi è sotto accusa per i guasti che ha creato nella società e i danni provocati al pianeta. È ovvio che se i cinesi crescono a questi ritmi potranno tra non molto permettersi uno stile di vita paragonabile al nostro. Presto in ogni famiglia cinese ci sarà un’automobile. E dopo i cinesi verranno gli indiani d’India e via dicendo. Non vogliamo e non possiamo impedire che questo succeda e tuttavia non possiamo osservare la crescita di questi grandi Paesi senza provare una certa inquietudine. Se i motori a scoppio delle automobili continueranno ancora per molto ad essere alimentati a benzina, l’inquinamento globale raggiungerà valori ben distanti da quelli tollerabili dall’ecosistema. Altro che sviluppo sostenibile.

Con la globalizzazione abbiamo inventato un giocattolo il cui meccanismo di funzionamento può essere utile all’umanità e alla sua crescita, ma che può anche rivelarsi problematico. La dimensione del meccanismo è tale da renderne complessa la governabilità. È un meccanismo creato dall’uomo eppure in buona parte a lui sconosciuto e in cui si celano trappole insidiose. Dare lavoro ai Paesi emergenti può aiutarne la crescita, e questo è positivo. Ma se poi a casa nostra la disoccupazione aumenta drammaticamente, quella scelta diventa discutibile. Concorrenza e profitti aziendali non possono essere gli unici criteri di decisione. Dobbiamo capire se vogliamo ridurre il mondo a un grande mercato, peraltro retto da regole poco trasparenti che privilegiano pochi e danneggiano i più, o se  esistono altre vie percorribili. La legge della domanda e dell’offerta rappresenta oggi il solo vero modello imperante, che domina sul pianeta Terra e che lo sta trasformando in un immenso bazar. Ma un mercato senza regole che non siano quelle della convenienza e del profitto rischia di diventare una giungla. Il bel giocattolo che abbiamo inventato si potrebbe rompere. Oppure può sfuggirci di mano. Forse ci è già sfuggito di mano.

Alle fredde precipitazioni meteorologiche che hanno caratterizzato la primavera 2010 si è aggiunta nelle ultime settimane la doccia ghiacciata rappresentata dalla ipotesi che la moneta unica possa scomparire dai conti in banca di molti cittadini europei come dai loro portafogli, e che questi possano ritornare a riempirsi, si fa per dire, delle vecchie dracme greche, lire italiane, franchi francesi, e persino degli indimenticati, se non rimpianti, marchi tedeschi. “L'Euro è in pericolo e se dovesse fallire, allora fallirà anche l'Europa”. Parole inequivocabili pronunciate non dal signor Pinco Pallino, ma dalla signora Angela Merkel. Apparso nei nostri portafogli il 1° gennaio 2002, l’Euro vive oggi la sua prima grande crisi. La crisi è iniziata in Grecia, soltanto ad ottobre 2009 e ora si  teme che il contagio si estenda agli altri Paesi del gruppo PIGS, acronimo che sta per Portogallo, Italia, Grecia e Spagna (e che in lingua inglese vuol dire “porci”).

Dire che l’Euro è figlio della globalizzazione potrebbe essere una affermazione superficiale, e tuttavia è ragionevole pensare che almeno in parte la sua creazione si deve alle spinte visibili e non visibili insite in quel complesso fenomeno. La moneta unica avrebbe fatto l’Europa più forte e in grado di affrontare le sfide dei tempi. Ma la sua attuale malattia dimostra che una patologia forse ben più grave interessa il contesto che l’ha prodotta. “Mala tempora currunt”, dicevano gli antichi romani, e non si riferivano certo al maltempo. Buoni motivi per pronunciare questa frase ce li hanno anche i romani di oggi e non solo loro. Non si era ancora usciti dalla crisi drammatica causata dalla bolla immobiliare, scoppiata in America e poi rimbalzata in Europa, che adesso dobbiamo confrontarci con l’amara prospettiva della bancarotta dell’Euro. Che a sua volta rimbalzerà in America e poi nel resto del mondo. E poi c’è il terrorismo internazionale, l’Iran e l’arricchimento dell’uranio, i conflitti nelle aree calde del pianeta, e via dicendo.

Insomma pare proprio che pioverà, ancora e a lungo, sul bagnato.

Sole e acqua

Che fare allora? Disegnare un nuovo modello di sviluppo, prima che l’attuale modello basato sulla logica del capitalismo danneggi irreversibilmente il pianeta, comporta una visione ed una forza di cui il genere umano non sembra disporre in questo momento storico.

Non avendo altre alternative dobbiamo tenerci il modello che abbiamo creato e convivere con le paure che esso genera costantemente. Ma possiamo tentare di modificarlo, almeno in parte, diminuendone le minacce e i rischi che nasconde. Bene ha fatto Barack Obama ad annunciare la sospensione nell’Artico delle trivellazioni off-shore. E bene ha fatto il senato americano ad approvare la riforma della borsa di Wall Street voluta dal presidente. Ci auguriamo riuscirà a fermare la speculazione selvaggia che affonda l'economia. Ma le principali modifiche di cui ha bisogno l’umanità dovranno essere realizzate soprattutto nel campo dello sfruttamento delle risorse energetiche e naturali. Sole e acqua dovranno diventare le due principali fonti d’energia, disponibili senza restrizioni. Investimenti cospicui dovranno essere fatti nella ricerca e alla tecnologia che avvelena ed inquina bisognerà sostituire una tecnologia sempre più pulita e gentile. Drastiche modifiche all’attuale assetto sono possibili fin da oggi, se si ha il coraggio di farle. Ma per farle è soprattutto necessario non rinunciare a nutrire la speranza per noi e per i nostri figli in un mondo migliore.

In fondo la storia insegna che l’umanità ha attraversato periodi ben più difficili, che ha vissuto tragedie disumane, che ha sofferto drammi inauditi, e poi ne è venuta fuori. La crisi del mondo è oggi più che mai crisi di identità, una crisi dei valori dell’umanità. Ma l’umanità è fatta di uomini e questi sono dotati coscienza e di libertà. Ognuno di loro se vuole può porsi domande e darsi risposte. Ognuno può capire se dentro di lui trovano spazio e tempo e attenzione, esigenze che riguardano le sfere dell’etica e, perché no, anche della spiritualità. Questioni difficili che rischiano di sconfinare nella retorica. E in un tempo in cui i luoghi di culto vanno svuotandosi e sulle coscienze imperversano le bufere causate da scandali vergognosi, risulta ancor più difficile dare, darsi risposte. Piove sempre sul bagnato.

Pioveva domenica 16 maggio sulla Theresienwiese e sulle migliaia di pellegrini che partecipavano alla messa. “Ci siamo incontrati in un tempo che quasi ogni giorno ci porta nuove incertezze e tuttavia siamo arrivati insieme a comprendere il messaggio da trasmettere alle future generazioni: che non ci può essere crescita senza solidarietà e riguardo per l’umanità, che è necessario avere coraggio per osare una nuova partenza”. Sul palco la scritta: Damit ihr Hoffnung habt. Perchè abbiate speranza.

Stasera è la sera del 3 giugno. Dal Golfo è appena giunta la notizia che il pozzo maledetto, dopo un mese e mezzo di tentativi falliti, è stato parzialmente chiuso. Oggi è piovuto tutto il giorno, ma adesso ha smesso. Domani, dicono, sarà bello.

(2010-3 pag 31)

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