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Categoria: Dossier
Pubblicato Venerdì, 03 Dicembre 2010 21:04

Jürgen Habermas e Papa Ratzinger

Un possibile accostamento tra razionalismo e cristianesimo

Jürgen Habermas teilt die Besorgnis von Papst Benedikt XVI, was das Fehlen moralischer Werte und die unkontrollierte Entwicklung der Wissenschaft betrifft, und wünscht sich hier einen kritischen Beitrag der Religion.

Sandro D. Fossemò

Siamo senz’altro abituati a vedere l’incontro tra un teologo e un filosofo ma quando abbiamo di fronte un grande rappresentante della Chiesa come Papa Ratzinger e un erede del pensiero francofortese come Habermas il tutto diviene ancor più interessante. Nel gennaio 2004 l’allora Cardinale Joseph Ratzinger, diventato in seguito Papa Bendetto XVI, ha avuto, presso l’Accademia Cattolica di Monaco di Baviera, un dialogo abbastanza corrisposto con il filosofo “ateo metodico” Jürgen Habermas, uno dei maggiori razionalisti laici del nostro tempo. Il reciproco intendimento, seppure con diverse sfumature, tra i due grandi studiosi dimostra come il cristianesimo sia oltre che spirituale pure estremamente razionale, tanto da risultare moralmente valido anche per un non credente. Entrambi hanno concordato sul fatto che una società fortemente secolarizzata come la nostra deve instaurare una comunicazione costruttiva con la religione se non vuole perdere il valore della solidarietà, indispensabile per salvaguardare e arricchire la funzione pubblica in una sana democrazia. Habermas difatti sostiene:
«
Una modernizzazione aberrante della società presa nel suo complesso potrebbe rendere molto debole il legame democratico ed esaurire quella particolare forma di solidarietà da cui lo Stato democratico dipende, senza poterla imporre, però, per via giuridica. Si presenterebbe allora proprio quella situazione che Böckenförde vede: la trasformazione dei cittadini di società liberali benestanti e pacifiche in monadi isolate, che agiscono solo sulla base del proprio interesse e usano i propri diritti individuali come armi contro il prossimο» .

Viene anche precisato che fede e ragione devono trovare un reciproco equilibrio nello scambio di idee in cui l’una sappia moderare l’altra a favore di un rapporto complementare che dia esiti positivi e benevoli all’esistenza dell’uomo. Il Pontefice analizza profondamente tale legame e propone il modello di una reciproca identificazione tra fede e ragione, dove il cristianesimo possa illuminare la razionalità occidentale in una direzione che non sia tipicamente manipolatrice ma umanamente creativa. «È importante accoglierle nel tentativo di una correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla complementarità essenziale di ragione e fede, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità» .

La rivalutazione religiosa è un fatto inevitabile dato che un sistema fortemente laicista rischia di affogare nel proprio nichilismo materialista se non trova un confronto proficuo con la religione. Come possiamo salvare certi nevralgici punti di riferimento quando non sappiamo più bilanciare l'importanza di determinati criteri? Habermas concorda pienamente: «Qui trova oggi risonanza quel teorema secondo cui solo l’orientamento religioso verso un punto di riferimento trascendente potrebbe far uscire dal vicolo cieco una modernità contrita» .

È davvero impossibile per una società secolarizzata l’autoregolazione di importanti principi sociali come, appunto, quello della solidarietà o altro quando ormai non c’è più nulla in cui vale la pena di credere. La democrazia rischia senz’altro di soffocare all’interno di uno Stato anticonfessionale per lasciare posto a una dominante struttura tecnocratica, prettamente funzionalista e difficilmente democratica. In questo senso, il nostro laico modello politico deve trovare “linfa vitale” nel contesto morale del cristianesimo. La pretesa drastica del laicismo assoluto è del tutto fallimentare se si prende in esame l’insegnamento del filosofo tedesco e del Papa. Se non possiamo far funzionare la democrazia nella nostra società postsecolare senza il contributo critico della religione perché, torno a ripetere, rischiamo di uniformare totalmente il pensiero, allora la richiesta del laicismo radicale di isolare il mondo cattolico all’interno della sfera privata è completamente priva di senso. Confinare e recintare la Chiesa provoca la grave distruzione culturale di secoli di storia e nega l’importante apertura spirituale dell’uomo, con il pericoloso risultato di rimanere intrappolati all’interno di una dimensione acritica della vita, dove possono diffondersi liberamente i germi di una mentalità totalitaria.

Il post-francofortese Habermas è attualmente tra i pochi studiosi atei e di sinistra che ancora mantiene un discorso realmente critico nei confronti dei sistemi sociali amministrati dal potere scientifico e tecnologico. Questo perché la famosa “Teoria Critica” della gloriosa Scuola di Francoforte non rappresenta solo l’avversione del marxismo all’attuale capitalismo avanzato, che Marcuse definisce giustamente unidimensionale, ma anche la valorizzazione e l’emancipazione della condizione umana, all’interno di un universo tecnologico sempre più omologato e automatizzato in cui il dominio umano sulla Natura, come sostengono ne “La dialettica dell’IlluminismoAdorno e Horkheimer, si è alterato nel dominio dell’uomo sull’uomo attraverso l’abuso della “ragione strumentale”. L’ingegneria genetica, quando a causa dello scientismo viene lasciata completamente nella mani della più scellerata sperimentazione, rientra in questa pericolosa preminenza dell’uomo sulla Natura con la grave conseguenza di provocare un forte controllo sulla vita, fino al punto di limitare gravemente la libertà di vivere secondo un’autonoma volontà.

Habermas, nel suo “Il futuro della natura umana”, pubblicato da Einaudi col sottotitolo “I rischi di una genetica liberale”, mette in evidenza, attraverso un ragionamento post-metafisico e kantiano, il pericolo di una manipolazione genetica a carattere liberista, dove le leggi del mercato del tipo “shopping in the genetic supermarket” finiscono per incidere liberamente sul patrimonio genetico dell’individuo fino a provocare la violenta e pericolosa eugenetica. Habermas, pur non escludendo la validità dell’intervento terapeutico destinato a evitare gravi malattie, rifiuta giustamente quella particolare sofisticazione diretta a potenziare il genoma dell’individuo, perché così facendo si finirebbe non solo per ostacolare gravemente le pari opportunità dei cittadini, cosa indispensabile per la democrazia, ma anche per minare alla radice l’attitudine del soggetto a scegliere liberamente il fine della propria vita. Si pensi, per esempio, al dramma della clonazione: non più vita propria ed autonoma ma “fotocopia” di una vita altrui.

Il filosofo post-francofortese, quindi, disapprova la programmazione dei geni e difende invece la fatalità genetica, vale a dire la spontanea casualità di Madre Natura, per evitare sia il condizionamento dell’esistenza del singolo, sia le turbe psicologiche a quell’uomo geneticamente alterato che si sentirebbe senz’altro alienato sapendosi programmato fin dalla nascita come un macchinario ben collaudato. Grande merito di Habermas è l’aver colto nella cosiddetta “irregolarità” non una mancanza ma addirittura un’opportunità. Dato che noi non «disponiamo di una conoscenza oggettiva dei valori» è assai probabile che i «genitori non potranno mai sapere quando un lieve difetto fisico del bambino non finisca per rivelarsi una sorta di vantaggio . Verissimo. La diversità, pur essendo frequentemente oggetto di derisione o emarginazione può sempre tramutarsi in un mezzo di diversificazione psicologica dalla massa. Il diverso, specialmente in età adolescenziale, è socialmente spinto a essere anticonformista, a causa di una spinosa integrazione con gli altri, e in questo senso la sua differenza diventa una vera fortuna.

Il professor Habermas critica anche quali abusi dell’ingegneria genetica la diagnosi di preimpianto e la ricerca su cellule staminali prelevate da embrioni umani. Porre sotto controllo e decidere liberamente il futuro dell’embrione in base alle nostre esigenze personali provoca una forma di pesante strumentalizzazione della vita, tanto da causare un torto alla dignità umana. Nella diagnosi di preimpianto gli embrioni vengono concepiti in vitro fino a quando non si arriva a quello sano, adatto a essere impiantato nell’utero materno. Anche se con la diagnosi di preimpianto si evita lo sviluppo di embrioni affetti da gravi malattie ereditarie, rimane pur sempre il rischio, come teme Habermas, che in un prossimo futuro, continuando su questa strada, si vada oltre determinati limiti, fino ad arrivare a un eventuale potenziamento o condizionamento genetico dell’embrione analizzato. L’eugenetica liberista, a mio parere, tende a determinare una sorta di inquadramento selettivo della vita, secondo un’efficiente e infallibile logica di programmazione che ricorda in un certo senso la follia dell’eugenetica nazista. Il nazionalsocialismo, nella sua immensa crudeltà, progettò la salvaguardia di una determinata razza con la conseguente distruzione delle razze ritenute “inumane”, vale a dire non degne di vivere. È inutile nascondere che con la manipolazione genetica o la distruzione di embrioni non graditi finiamo per perseguire una strada affine a quella hitleriana.

L’embrione non può essere usato come un qualsiasi oggetto anonimo convertito in merce, a causa del fatto che è pur sempre una creatura vivente irripetibile con una “propria originalità genetica, determinata a diventare un essere umano completo. Anche se l’embrione non ha ancora ultimato il proprio sviluppo per poter essere considerato da molti una persona a tutti gli effetti rimane l’evidente realtà che lo”sta diventando”, e quindi le cose non cambiano. Si tratta sempre di una vita che viene distrutta crudelmente. Rendiamoci conto: dover essere generato in provetta con il solo scopo di diventare una medicina! È folle e mostruoso. Nulla può giustificare un atteggiamento del genere che in verità trova la propria assurda spiegazione in un disegno criminale allacciato agli interessi economici dell’industria farmaceutica o in una scienza a circuito chiuso, totalmente asservita al mercato. Habermas, per testimoniare la sacralità della vita prenatale, riferisce un avvenimento singolare collegato a una particolare tradizione funeraria di Brema. I parti prematuri, i nati morti oppure i feti tolti con le interruzioni di gravidanza non vengono gettati via, ma sono collettivamente seppelliti in cimitero in una apposita e anonima tomba, proprio come segno di rispetto verso coloro che non sono mai venuti al mondo .

È inutile continuare a dichiarare che la ricerca scientifica, riguardo le cellule staminali prelevate dagli embrioni non deve essere fermata, perché in questo caso è vero esattamente il contrario: così facendo la scienza finisce solo per canalizzarsi, in quanto limita il percorso di altre strade utili e meno drammatiche come quello delle cellule staminali ricavate dal midollo osseo o dal sangue prelevato dal cordone ombelicale. In questo senso, la scienza rallenta la propria indagine visto che frena la possibilità di ampliare nuove scoperte nel campo seguendo idee alternative. Neanche ci dobbiamo illudere che il trattamento riservato agli embrioni sia cosa a noi estranea, che non ci riguarda. Come il sistema utilizza l’embrione così finisce, in un certo senso, col fare anche con noi: veniamo adoperati solo come degli oggetti da sfruttare totalmente per poi esseri gettati via come spazzatura dal momento in cui non siamo più utili a nessuno. Se rispettiamo la vita dell’embrione allora sappiamo organizzare al meglio anche la nostra. Se l’esistenza incomincia dal momento del concepimento vuol dire che la dignità dell’uomo va rispettata in senso assoluto, anche in una fase embrionale.

Habermas, riguardo alla ricerca sulle cellule staminali prelevate da embrioni, dichiara in un’intervista che «l’uso di embrioni umani per fini di ricerca rischi di abituarci ad assumere, più in generale, un atteggiamento aberrante, di strumentalizzazione della vita umana. In questo modo rischiamo di avventurarci su di un piano inclinato».

In base a questo, Habermas non vieta completamente la sperimentazione ma crede che sia giusto una regolamentazione restrittiva. Il filosofo tedesco da un lato disapprova la ricerca selvaggia sugli embrioni e dall’altro difende la libertà di aborto solo in determinati casi, perché evidentemente rifiuta l’uso strumentale della vita.

Ci troviamo davanti a una situazione molto simile al concetto legato al Grande Apparato di Heidegger che trasforma l’uomo, all’interno della società, in un oggetto prettamente funzionale di un complesso e anonimo congegno tecnico. L’eugenetica, in questo senso, tende a influenzare enormemente le direttive dell’ingegneria genetica in nome di una scienza fondamentalista organizzata come una sorta di “religione della perfezione”, con un atteggiamento inquisitorio verso quelli che risultano essere difettosi fin dai primi istanti di vita. Tutti gli embrioni che figurano come geneticamente imperfetti finiscono quasi per essere considerati esseri viventi “inutili” all’ingranaggio sociale, con la tragica conseguenza di venir eliminati ancora prima di nascere, senza alcuna speranza, seppur labile, di una possibile sopravvivenza, dato che il mondo dell’efficienza assoluta non può mai permettersi di sbagliare. L’incubo del Grande Apparato emerge proprio nella meccanizzazione del pensiero moderno, attualmente presente nello scientismo positivista, a dimostrazione del fatto che ciò che è “scientifico” o che viene ritenuto tale non dev’essere limitato o criticato da nessuno perché si pone come una sorta di verità assoluta e inconfutabile, capace di esercitare un controllo arbitrario sulla vita e sulla morte. Sembra quasi, come ci ricorda Papa Giovanni Paolo II, che ogni cosa che sia tecnicamente realizzabile diventi a sua volta anche moralmente accettabile. Si tratta di un vero e proprio dogma di un certo razionalismo ateo estremamente utilitarista che trova la sua perversa e crudele giustificazione in un sorta di materialismo meccanicista diretto a considerare l’uomo nulla di più di una “macchina biologica”. Come infatti affermano le significative parole di Papa Ratzinger proprio sull’imminente pericolo umanitario provocato dall’eugenetica: «Nel frattempo è apparsa in primo piano un’altra forma di potere, che sembra del tutto benefica e meritevole di approvazione, ma in realtà può diventare una nuova minaccia per l’essere umano: l’uomo è ora in grado di creare essere umani, per così dire di produrli in provetta. L’uomo diventa un prodotto, e di conseguenza cambia radicalmente l’atteggiamento dell’uomo verso se stesso. Non è più un dono della natura o del Dio creatore; è prodotto di se stesso. L’uomo è giunto alla sorgente del potere, nel luogo di origine della propria stessa esistenza. La tentazione di creare infine l’uomo perfetto, di condurre esperimenti sugli esseri umani, di vedere gli esseri umani come spazzatura e di metterli da parte, non è una fantasticheria di moralisti nemici del progresso».

Di fronte agli inquisitori della scienza, non possiamo fare a meno di cercare una difesa che sia sempre scientifica ma volontariamente umana, in cui l’aspetto etico non venga preteso da una determinata istituzione esterna ma sia inerente alla scienza stessa attraverso una possibile convergenza con valori religiosi, proprio come ci viene suggerito dal gesuita Enrico Cantore nel suo saggio L’uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza. Questa resistenza alla distruzione del tecnicismo scientistico, definibile come umanesimo scientifico, non è contro la scienza ma, al contrario, è a favore di una scienza umanistica in grado di essere più ampia nella integrazione delle varie discipline umanistiche e più completa nella inclusione della metafisica, con lo scopo di realizzare il superamento cristiano del positivismo in termini scientifici, in modo da riuscire a guardare verso l’uomo non più come un “composto” ma come un organismo unico e vitale nella sua totalità, il cui orizzonte è infinito.

 

(2007-4 pag 24)

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