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Categoria: Cultura
Pubblicato Domenica, 21 Novembre 2010 20:15

La presenza italiana nel Settecento


Francesco Jurlaro

Il Settecento è un secolo decisivo nella vicenda storica dell’Occidente, e non solo di esso. Nella coscienza collettiva quel secolo è legato ad alcune date epocali, destinate a mutare radicalmente la realtà delle cose sia sul piano politico-sociale ed economico che su quello della cultura e della vita: queste date sono quelle - fra di loro strettamente legate – dell’ indipendenza americana e della rivoluzione francese.

Gli avvenimenti che in quelle si riassumono sono talmente dirompenti, così carichi di mutamenti e di innovazioni, da stagliarsi solitari nel panorama del secolo, quasi cancellando tutto ciò che è avvenuto nei decenni precedenti. Da allora in avanti tutto sarebbe stato diverso.
Non a caso è coscienza diffusa negli storici e nella cultura che il moderno trovi lì la sua origine e la sua caratterizzazione. Ma quelle date e quegli avvenimenti sono in realtà il coronamento di un processo molto lungo e non lineare che si è sviluppato per tutto il secolo. Ben prima della sistematizzazione del nuovo sapere e della nuova concezione del mondo operati in sede illuminista dalla monumentale Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, il ‘700 conosce una forte dinamicità riformistica tesa a rimodellare le strutture economiche, le macchine amministrative degli Stati. Negli anni di mezzo si assiste al fenomeno di intere classi di intellettuali che si alleano col potere dei monarchi prospettando riforme tese al miglioramento dell’economia e della produzione - specialmente relativa all’organizzazione delle campagne; il tuttosulla base del persistere dello stretto legame con la tradizione. In altre parole non viene messo in discussione il diritto dei regnanti, che continuano ad esercitare il potere in maniera assoluta, ma quel diritto chiuso incomincia ad essere in qualche misura compensato da nuove teorie, quali - ad esempio - il giusnaturalismo che ipotizza un “diritto di natura stabilito su base razionale, precedente e in certo modo prioritario rispetto al diritto statuale”.

Sede importante di queste elaborazioni e di queste pratiche consociative è il territorio italiano, il quale, se perde in questi anni l’importanza strategica che aveva avuto fino alla pace di Aquisgrana, diventa un vero e proprio laboratorio sia sul piano delle pratiche politiche che su quello della elaborazione delle idee. Inizia in tal modo a farsi avanti l’idea di un’Italia come identità nazionale. Ciò non implica ancora il concetto di identità e indipendenza, ma postula già la necessità che i regnanti dei diversi stati che compongono la geografia politica della penisola, assumano una autonomia e una identità che li renda distinti rispetto agli stati di origine. In particolare ciò sembra possibile a nord, nel lombardo-veneto con gli Asburgo austriaci e al sud, con il regno di Napoli, con Carlos di Borbone, che governa con il nome di Carlo VII tra il ‘34 e il ‘59 e che in seguito diventò re di Spagna con il nome di Carlo III. E non manca chi vede proprio in lui il regnante in grado di unificare anche fisicamente il territorio italiano.

Intanto però viene incrinandosi l’alleanza tra intellettuali e dispotismo. Il pieno manifestarsi del pensiero illuminista e l’indubbia crisi sociale e politica in cui versa la nobiltà determina il grande crollo dell’’89. La rivoluzione francese sembra fare piazza pulita di tutto. Sappiamo che non sarà così, che l’Ottocento conoscerà importanti momenti di restaurazione.
Ma intanto il terzo stato (la borghesia) avrà visti riconosciuti quei diritti politici e sociali fortemente postulati dalla propria capacità economica e dal proprio spirito di intraprendenza.


Tutto ciò che avverrà successivamente, anche nel ‘900, non potrà fare a meno di fare i conti con le acquisizioni fondamentali del pensiero e della cultura illuminista fondata sui concetti di libertà e di uguaglianza e sul dominio della ragione critica. Se la modernità si identifica su quella
rivoluzione, allora si comprende come oggi, che la civiltà della modernità sembra giunta al limite estremo della sua identità, possa da alcune parti essere messa in discussione la forza maieutica della rivoluzione francese e dei suoi princìpi. Ma non è detto che questo cambio di orizzonte cosí radicale prospetti un salto qualitativo per la civiltà occidentale.

(2005-2 pag 17)

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