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Un artista, dove il suo orizzonte è il mare, non può essere statico

Intervista all’artista sardo Michele Ciacciofera

Cristina Picciolini

Milano, 8 novembre 2014.
Michele Ciacciofera, nasce a Nuoro nel 1969 e si trasferisce più tardi a Siracusa. Studia Scienze Politiche a Palermo e poi, in un momento particolare della sua vita, decide di tornare in Sardegna dove, per una fatalità dall’apparenza poco gradevole, scopre e mette in pratica il suo vero talento. Artista contemporaneo, misterioso e profondo alla continua scoperta di se stesso e di ciò che lo circonda, spazia con le più svariate tecniche artistiche, vincendo diversi premi importanti e facendosi notare non solo all’estero, ma sempre e di nuovo volentieri nella sua cara Italia.

Nato in Sardegna, cresciuto in Sicilia per poi spiccare il volo in giro per il mondo e da qualche anno con un Atelier a Parigi. Ti senti ancora un isolano?
Le due isole hanno entrambe delle caratteristiche che hanno marcato profondamente la mia personalità. Della Sardegna sento di aver ereditato la fierezza del carattere ed una certa caparbietà. Della Sicilia l’apertura verso tutto, il desiderio di guardare sempre al di là dell’orizzonte. Isolano in entrambi i casi, anche se l’aver vissuto più a lungo in Sicilia ha indubbiamente avuto maggiore influenza nel mio modo di vedere la realtà.

Da dove nasce la scelta di Parigi?
Dopo aver vissuto tanti anni in Italia, spostandomi sia tra le isole che in altre regioni, vivo a Parigi da circa tre anni. Non so se sarà questa l’ultima tappa, ma intanto qui trovo continui stimoli per proseguire nel mio lavoro così come in passato successe negli Usa e nei deserti tra Africa e medio Oriente.

Una laurea in Scienze Politiche e poi il tuffo nell’arte. Quando hai sentito l’esigenza e chi ti ha spinto in questa direzione?

Ho disegnato e dipinto sin dall'infanzia avendo tuttavia una certa naturale predisposizione per la scrittura, che continua a rimanere la parte intima, antistante la produzione con i medium dell'arte.
Vent’anni fa la passione per lo sport e la carriera agonistica mi riportarono in Sardegna. Fu proprio in quel periodo che, in seguito ad un infortunio che compromise i miei progetti, iniziai a frequentare lo studio di un artista ed architetto che divenne poi il mio maestro: Giovanni Antonio Sulas.
Iniziai cosi a disegnare arredamenti, interni d'architettura e naturalmente a dipingere, fotografare con la costanza e l’impegno che un atelier richiede. Fu una formazione molto intensa e particolare e gli studi universitari credo siano stati una premessa utile per le tematiche che sviluppo. Anzi, direi una tappa necessaria.

Che significato ha per te la parola nei tuoi scritti?
La parola è la chiave che conduce ad una storia, un po' come un colore per un quadro. Scrivere è frutto di riflessione ma anche di ricerca ed in essa la parola ha un ruolo essenziale.  A volte è da una parola che un disegno può nascere ed il suo ruolo è essenziale.
Quando scrivo qualcosa non mi pongo necessariamente l’obiettivo di trasferire poi tutto nelle immagini, ma scrivere mi è necessario per creare dei confini ad un pensiero che poi costantemente rielaboro.

Il tuo lavoro spazia dalla pittura, al disegno, alla scultura, all’installazione, alla scenografia e alla ricerca sui nuovi media. A quale espressione ti senti più legato e cosa scaturisce da questa continua ricerca?
Svolgo una ricerca che difficilmente rientra in divisioni estetiche radicali: passando dalla figurazione all’astrazione cerco sempre di trovare una linea comunicativa che permetta di scoprire una dimensione intima del mio lavoro. Presto molta attenzione alla materia ed ai materiali che utilizzo. Proprio di recente ho ripreso ad utilizzare la ceramica e la terracotta che avevo accantonato anni fa per dedicarmi ad altro. Questa pratica corrisponde nel mio modo di lavorare ad una trasformazione di quello che disegno. Infatti in ognuno dei medium che tu hai citato il disegno è presente, costantemente integrato. Cosi è naturalmente anche per le mie scenografie che a loro volta sono vere e proprie installazioni ispirate sia ai movimenti di scena che ai testi teatrali di riferimento secondo una mia libera interpretazione della loro trasposizione attuale.
Parlavo prima delle ceramiche e del loro rapporto con il resto della mia produzione: in una recente mostra tenuta a Siracusa in un edificio del XV secolo, Palazzo Montalto, ho assemblato sotto forma di installazione numerose ceramiche insieme ad oggetti casualmente recuperati, che avevo disposto su dei vecchi tavoli trovati presso un rigattiere, assolutamente instabili e precari, e con essi una serie di disegni e pitture su supporti vari: carte artigianali birmane, lamine di metallo, cartoni dorati, etc. Tutto può fornire un buono spunto per creare qualcosa. L’insieme nasceva in un modo che trovavo entusiasmante, dialogando con gli spazi dell'antico palazzo siciliano. 

La violenza, l’amore, le tematiche ecologiche e la fragilità del paesaggio sono le principali tematiche che hai trattato in passato, ma che continuano ad avere una dimensione anche nella ricerca attuale. Che significato ha per te la memoria?
Ho sempre concepito il mio modo di lavorare come un impegno anche civile e questo mi ha portato a trattare tematiche politicamente sensibili ma anche permeate di un substrato socio-antropologico nonché psicologico.
La memoria è il DNA del mio lavoro. Non riesco a concepire una tematica attuale che non tenga conto di essa, sia in maniera volontaria che involontaria. Anche la casualità riveste un ruolo importante per me nell'uso della materia e inevitabilmente questa discende dalla memoria. Tutte le tematiche che hai citato hanno radici direi quasi archeologiche che tornano a galla per suggerirmi nuovi spunti espressivi.

Oltre che in Francia hai esposto anche in altri paesi europei e hai vissuto per un breve periodo a Berlino. Cosa porti con te dell’esperienza tedesca? Quale è l’approccio dei francesi alla tua arte, quale è stata quella dei tedeschi?
Della esperienza berlinese legata alla produzione del ciclo “The triumph of death” ho un ricordo esaltante. Quella serie di lavori ispirati in partenza dal famoso capolavoro anonimo quattrocentesco, che è esposto oggi al Museo di Palazzo Abatellis di Palermo, aderiva perfettamente allo spirito ed all'estetica che ritrovavo a Berlino. Ricorderò sempre con grande entusiasmo l'assoluta libertà creativa che quella città ispirava lasciandomi una certa nostalgia quando conclusi l'esperienza.
Di recente ho esposto in un'altra galleria tedesca, ad Offenbach, una serie di dipinti e piccole sculture di carta, delle teste dal ciclo “odio gli indifferenti”.
Mi ha fatto piacere ritrovare la stessa attenzione del pubblico e lo stesso dialogo che credo siano le cose che maggiormente mi interessano in questo processo comunicativo tra me, i miei lavori e lo spettatore. Parigi è profondamente diversa in questo, direi meno stimolante o forse anche solo differente. Tuttavia la luce di questa città, gli spazi urbani, il multiculturalismo europeo per eccellenza mi danno continui argomenti per lavorare.

Quale è secondo te il segreto del successo in qualsiasi forma artistica si lavori?
Direi la concentrazione costante, l'attenzione verso ogni dettaglio anche se non voglio trascurare il ruolo essenziale della casualità. L'arte infatti non permette di controllare tutto e credo che questo sia piuttosto divertente.

Che ne pensi del mercato attuale dell’arte?
Credo che purtroppo oggi il mercato stia creando profonde distorsioni alla creazione artistica, disturbando quando non modifica irrimediabilmente la libertà espressiva. Continuo a credere che una riflessione su questo punto sia necessaria e c'è ancora la possibilità di farlo, sia da parte degli stessi artisti che delle istituzioni a largo spettro preposte alla gestione del sistema della cultura. Altrimenti si andrà verso quella fine dei processi creativi che in molti hanno predetto.
È vero che l'arte non può essere scissa dall'uomo e dal suo agire, ma vederla trasformata in pura decorazione per i desideri e la giostra di un sistema tendente sempre più alla omologazione costituisce un rischio serio ed incombente. L'arte deve riprendere la propria voce autonoma, militante, indipendente ed attenta a tutto il processo sociale contemporaneo.

Lo scrittore Fernando Pessoa ha scritto: raffinare l’esistenza e coltivare la rinuncia.
A che punto sei della tua vita?
Ho sempre messo in discussione ogni momento della mia vita quando ritenevo che fossi giunto ad un punto di stabilità. Non credo di poter affermare che stia ancora cercando qualcosa di preciso, preferisco esplorare e correre dietro ai sogni. In fondo è quello che ho fatto sino ad oggi.
In questi ultimi anni ho sentito forte l’esigenza di semplificare quello che faccio, eliminando tutto quello che vedo come superfluo, attraverso un processo di autocritica volto al rigore.  Questo mi ha consentito anche di raffinare le mie modalità espressive rinunciando a cose che in passato ritenevo importanti.

La morte e la solitudine sono per te la più grande paura umana?
Certamente la solitudine ma non la morte. Ho vissuto da molto vicino entrambe i sentimenti, avendo perso drammaticamente un fratello a cui ero molto legato, quando avevo 25 anni. Quel momento mi diede la dimensione netta di come morte e solitudine possano essere simili.
Nel mio lavoro mi sono concentrato molto sulla solitudine come condizione esistenziale visualizzandola come una stanza in cui il rumore del silenzio è assordante. Nessuno può ascoltare tranne la persona che nella propria solitudine sprofonda.Penso che la morte sia un momento di passaggio ma anche una tappa necessaria della vita che tende verso l'infinito. Anzi penso che l'attesa stessa della morte impreziosisca la vita aiutando a non annoiarsi.

Anselm Kiefer ha detto: quando tutto sarà finito, l’arte continuerà. Quale è in questo momento l’opera che tu vorresti che rappresentasse il tuo continuo?
Sono d'accordo con questo pensiero di Kiefer a patto che l'arte continui ad essere il risultato di un processo veramente creativo, espressione di libertà ed indipendenza da ogni forma di assoggettamento. L'arte è sempre stata un elemento fondamentale per la società e l'individuo. Non c'è dubbio che in qualunque circostanza, anche negativa, l'espressione artistica ha continuato incessantemente il proprio cammino.

Non è facile dire che opera mi rappresenti di più. Tuttavia, visto che il progetto “odio gli indifferenti” non è ancora terminato, sentendomi totalmente immerso in questa tematica, l'opera a cui mi sento più vicino in questo momento è proprio la installazione di cui ho parlato sopra.

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