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Categoria: Cultura italiana a Monaco
Pubblicato Mercoledì, 01 Dicembre 2010 12:46

Mezzo secolo da Gastarbeiter

Intervista a Giuseppe Tumminaro

Wir stellen in dieser Ausgabe von INTERVenti einen italienischen Gastarbeiter vor, der vor 49 Jahren aus Sizilien nach München kam. Er erinnert sich im Gespräch an sein Leben in Deutschland. Porträt eines Menschen, der sich durch seine Ehrlichkeit und seinen Fleiß den Respekt von Deutschen und Italienern verdient hat.

Pasquale EpiscopoGiuseppe Tumminaro

Marianopoli è un piccolo paese situato nel cuore della Sicilia a settecento metri di altezza, sui monti della provincia di Caltanisetta. Giuseppe Tumminaro vi è nato 77 anni fa. “Allora ci vivevano cinquemila persone. Oggi la gente comincia a scarseggiare, saranno 1200 abitanti, (…) molte case sono vuote, molte strade silenziose. Dopo la guerra molti compaesani hanno lasciato la propria terra e se ne sono andati; molti, clandestinamente, sono arrivati in Svizzera, o in Francia. Io volevo andare in Germania.”E così è stato. Da quasi cinquant’anni Giuseppe Tumminaro vive a Monaco. Molti suoi connazionali lo conoscono. Almeno di vista. Il signor Giuseppe frequenta convegni e conferenze e partecipa con interesse alle manifestazioni culturali che la comunità italiana organizza. Il 24 luglio scorso, alla Festa di INTERVenti presso l’Istituto di Cultura, c’era anche lui. Mi sono presentato e gli ho chiesto se fosse disposto a rilasciare un’intervista. Qualche giorno dopo ci siamo incontrati in un bar del suo quartiere.

 

INTERVenti (IV): Signor Giuseppe, prima di parlare dalla sua infanzia vorrei chiederle: lei ha famiglia?
Giuseppe Tumminaro (GT): Sì, ho famiglia, ma vivo solo. Mia moglie è morta un anno e mezzo fa. I miei tre figli, un maschio e due femmine, sono grandi, hanno le loro famiglie.

IV: Allora, cominciamo dall’inizio…GT: Ho vissuto la mia infanzia a Marianopoli con i miei genitori e mia sorella. Mio padre si chiamava Giuseppe anche lui. Come mio nonno. Faceva il contadino, aveva un pezzo di terra da coltivare, uno o due ettari. Mia madre si chiamava Rosa e faceva la casalinga. E poi c’era mia sorella Antonina, che ora vive a Palermo. A Marianopoli ho frequentato le scuole. Delle elementari ricordo i quaderni da riempire di aste, tante aste, tutte uguali. Non bisognava superare il rigo. Poi ho fatto le medie e dopo ho frequentato dei corsi serali. Fino a quando sono partito per il militare, che ho svolto aTrento e a Bolzano. Ero soldato semplice nei pionieri (il Genio pionieri, ndr). 17 mesi di addestramento e di disciplina dura.

IV:Aver fatto il militare a Bolzano ha avuto influenza sulla sua decisione di emigrare in Germania?
GT: No. A quel tempo non ci pensavo ancora a fare l’emigrante.

IV:Allora la sua prima fidanzata l’ha avuta al paese?
GT: Non ho avuto una vera fidanzata al mio paese. Al paese bisognava stare lontani dalle donne. Te le potevi sognare e basta. Niente di più. Le donne bisognava lasciarle in pace, c’era la gelosia dei fratelli e dei parenti. La mentalità era quella che era. È ancora così.

IV: Facciamo un passo indietro: si ricorda della guerra?
GT: Mi ricordo che suonavano le campane e questo era l’allarme. Io ero piccolo, avevo undici anni. Tutti dovevano lasciare le case e scappare in campagna a nascondersi sotto gli alberi.

IV: Parliamo della Germania. Ricorda la sua partenza dalla Sicilia e l’arrivo a Monaco?
GT: E certo che me lo ricordo. A Caltanisetta abbiamo fatto la prima visita medica. Dopo la visita medica ho firmato il contratto. Ero già in lista per la ditta di Monaco. La visita medica l’ho fatta anche a Napoli. Questa volta ci hanno fatto spogliare nudi. Il contratto me lo hanno fatto firmare anche a Napoli. A Monaco sono arrivato dopo tre giorni di viaggio in treno, era il due o forse il tre di febbraio del 1962. C’era la neve, tanta neve. Adesso qui non la conoscono più la neve, non sanno più cos’è. Siamo arrivati a Ostbahnhof (una stazione ferroviaria di Monaco ndr) e di qui ci hanno portato a Cosimastraße, nelle baracche, dove mi hanno mostrato il mio letto. Stavo insieme agli altri. Eravamo in dieci.

IV: Quando lei è partito i suoi familiari erano contenti che avesse trovato una sistemazione?
GT: Lasciare la famiglia è stato difficile, loro non volevano che io partissi… loro… (si interrompe, piange, ndr).

IV: Ma poi ogni tanto ci è tornato a Marianopoli, vero? Come si sentiva e come si sente quando torna al suo paese?
GT: Amico! Amico degli amici! Di quelli che sono rimasti o che sono tornati. Qualcuno è andato via per l’eterno. Molti sono andati via, via dall’Italia, senza contratto e senza fare domanda… io invece avevo fatto domanda, ero regolare… No, i miei non volevano che io partissi… neanche io volevo… sono stato costretto… al mio paese non c’era lavoro… solo ogni tanto, ma erano lavori che si facevano di corsa… dieci giorni, quindici giorni…e ti rimandavano a casa. Poi un giorno ho visto questo manifesto, dove chiedevano persone per ricostruire la Germania.

IV: Il suo contratto era da muratore?
GT: No, era da manovale, dovevo fare tutti i lavori manuali. Per fare il muratore bisognava avere una qualifica e quella io non ce l’avevo. La Firma (ditta, ndr) si chiamava Littmann e stava a Poing. Facevano prefabbricati. Mi hanno messo subito alla gru… perché avevo gli occhi buoni, e anche la testa buona. Manovravo la gru spostando materiale da una parte all’altra del cantiere. Nel 1964 ho avuto un incidente. C’è stato un forte temporale che ha fatto partire da sola la gru. Il vento l’ha spinta e la gru è caduta. Io ero in cabina, a dodici metri di altezza, e sono caduto con tutta la gru. Mi sono aggrappato al tubo nel quale passa il cavo d’acciaio, il cavo che serve per sollevare i carichi. Quel tubo stava in mezzo alla cabina. Ho avuto fortuna. Non mi sono fatto molto male, solo un forte dolore alla schiena. Mi hanno portato all’ospedale, mi hanno fatto i raggi, mi hanno fasciato e poi mi hanno mandato a casa.

IV: Ha sempre dormito nelle baracche?
GT: All’inizio sì. Poi ho reclamato e ho avuto un letto in una palazzina che la ditta stessa aveva costruito per gli operai. Però lì si pagava. Venti marchi al mese, sempre per stare insieme agli altri. Anche nella palazzina eravamo dieci in una stanza. Anche qui solo letti, uno sotto e uno sopra. Italiani, turchi, greci… C’erano anche tanti siciliani.

IV: Ha mai avuto problemi con i suoi compagni di stanza?
GT: Qualcuno fumava, la sera tornavano tardi… neanche le scarpe si levavano. C’era chi bestemmiava e fumavano anche nel letto. E noi dovevamo respirare il fumo degli altri. Qualche volta si addormentavano con la sigaretta in mano e le lenzuola si bruciavano. Io per fortuna non ho mai avuto il vizio del fumo.

IV: Ha lavorato solo per la Littmann?
GT: Ho lavorato per la Littmann per 27 anni fino al 1989, poi ho cominciato a lavorare come elettricista per il Comune di Monaco. Ho lavorato per la U-Bahn. Vede io ho un tesserino e viaggio gratis.

IV:Perché non ha lavorato come elettricista nella Littmann?
GT: Perché la mia qualifica di elettricista non mi era stata riconosciuta. Avevo fatto dei corsi dopo le scuole medie, corsi per corrispondenza con una scuola di Torino, per diventare radiotecnico. A Torino dopo il militare ho anche lavorato per un anno in una ditta che faceva impianti elettrici. Anche a Monaco ho fatto dei corsi in tedesco per ottenere la qualifica di elettricista e con questa qualifica sono riuscito ad avere un posto al Comune. Ero addetto al servizio di sostituzione e di ricarica delle batterie dei treni della U-Bahn (la metropolitana, ndr). Quelle batterie pesavano anche quattrocento chili.

IV: Com’è e come è stato il suo rapporto con la lingua tedesca?
GT: “Katastrophe!”. All’inizio non sapevo dire neanche una parola, i capisquadra erano tedeschi, mi gridavano quello che dovevo fare e si aiutavano a gesti, “prendi quella roba, raccogli quella legna”… Comunque c’era anche un traduttore che ci dava una mano… Non ho comunque mai avuto discussioni con i capisquadra a causa della lingua. Loro lo sapevano che noi non parlavamo tedesco. Comunque io la lingua tedesca l’ho studiata sui libri a scuola, nelle scuole serali. Adesso va un po’ meglio.

IV: I suoi figli parlano l’italiano?
GT: Loro sono tedeschi.

IV: E come ci parla?
GT: Un po’ in tedesco, un po’ in italiano. Certe volte, certe parole le comunico a segnali, a gesti… Io non volevo restare a lungo in Germania. Volevo ritornare a casa, al mio paese. Pensavo di mettere da parte qualche centinaia di lire, ma non ci sono riuscito, non ho risparmiato niente. Tutto quello che guadagnavo lo spendevo. Nel 1964 ho conosciuto mia moglie e subito sono nati i nostri figli. All’inizio non eravamo sposati.

IV: Quindi lei non aveva la potestà sui suoi figli?
GT: No. All’inizio non vivevamo neanche insieme. Quando è nata la mia prima figlia mi hanno chiamato dal tribunale e mi hanno imposto di pagare gli alimenti, altrimenti me li trattenevano dallo stipendio. Ho firmato un protocollo con mia moglie.

IV: Mi parli dei suoi figli. Ha dei nipoti?
GT: La figlia più grande è Silvia, ha 46 anni e ha due figli. Vive vicino ad Augsburg. Poi c’è Angelica. Ha un figlio. Abita alla periferia di Monaco. E poi c’è Roberto. Sta per avere un figlio. Fa il tassista a Monaco. Quando passa da queste parte si ferma e viene a trovarmi. Ma i miei figli non m’invitano quasi mai.

IV: E sua moglie?
GT: Mia moglie si chiamava Maria. È morta all’improvviso. Una malattia del cuore. Aveva sessantasei anni. Quarantasei anni assieme.

IV: Cos’è per lei la solitudine?
GT: Che mi metto a ricordare, a guardare una fotografia, a pensare al passato, alle persone che c’erano e che non ci sono più… (piange, ndr)

IV: La sua pensione è dignitosa?
GT: È una pensione che si può vivere.

IV: Che cosa ha mangiato oggi?
GT: Pane e latte. Stasera mi cucino qualcosa.

IV: La casa dove vive è sua?
GT: Era di mia moglie, ora ci vivo io. Sono trenta metri.

IV: Ha amici tedeschi?
GT: Mio figlio. Che è anche il mio miglior amico. Anche i miei generi, ma ci vediamo poco. Poi conosco tanta gente, alla Missione Cattolica, a Rinascita, all’Istituto di Cultura. Qui incontro le persone che conosco. Sono italiani. Quando ci incontriamo parliamo.

IV: Ha mai vissuto una situazione di esclusione, di discriminazione, persino di razzismo da parte dei tedeschi?
GT: No. Mi sono sempre comportato bene con loro e ho avuto gentilezza.

IV: E da parte di italiani?
GT: Nemmeno.

IV: Che cosa vuol dire per lei la parola “amore”?
GT: Vuol dire soprattutto rispetto.

IV: E l’onestà?
GT: È non fare del male.

IV: E la dignità?
GT: È il rispetto di se stesso.

IV: E la paura?
GT: La paura la conosco: la paura di non avere soldi. Ma anche degli altri, del più forte. Quando andavo il sabato nei locali e mi prendevano per la giacca e mi dicevano “pidocchioso”.

IV: Ha conosciuto la mafia?
GT: Sì, quando ero giovane, in Sicilia, ma non direttamente.

IV: Qui in Germania c’è la mafia?
GT: Certo che qui c’è la mafia.

IV: Qual è il peggior difetto dei tedeschi?
GT: Che si sentono superiori a noi italiani e a tutti.

IV: E degli italiani?
GT: Che sono chiacchieroni.

IV: Che cos’è per lei l’emancipazione femminile?
GT: Non mi turba, non m’interessa. Io sono stato geloso solo delle donne della mia famiglia.

IV: Cosa vuol dire per lei la parola “Europa”?
GT: Vuol dire libertà e amicizia.

IV: C’è una domanda che non le ho fatto e alla quale vorrebbe comunque dare una risposta?
GT: Sì, non mi ha domandato niente del futuro. Vedo cose negative. Qui, e anche in Italia. Anche nella mia famiglia, quando parlo con i miei figli. Vedo che siamo diversi. Mi preoccupa come ci comportiamo con le persone che arrivano da altri Paesi, che arrivano da lontano e non le trattiamo bene e ci dimentichiamo che così eravamo anche noi.

IV: Signor Giuseppe, abbiamo finito, grazie.

(2010-4 pag 45)

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