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Categoria: Cultura italiana a Monaco
Pubblicato Giovedì, 25 Novembre 2010 10:34

Dell’armonia e altre cose

Un colloquio con il pianista Fabio Romano

Der sizilianische Pianist Fabio Romano war ein musikalisches Wunderkind und wurde bereits mit 19 Jahren Dozent für Klavier am Konservatorium Vincenzo Bellini in Palermo. Nach München kam er 1992 und entschloss sich hier Musik noch mal zu studieren. Seit Oktober 2004 ist er Dozent für Klavier an der Hochschule für Musik und Theater München.

Rosanna Ricciardi

Chi scrive ha conosciuto Fabio Romano un pomeriggio di due autunni fa, ad un tavolino del caffè della Glyptothek. Poco prima di chiedergli cosa facesse quando non era lì capitò che lui, in quel periodo in cerca di casa, si appuntasse delle informazioni riguardanti un annuncio sulla SZ e capitò che uno dei presenti, osservandolo, gli chiedesse: «Ma tu sei musicista?».
Ecco: Fabio Romano, pianista, scrive metrature di case e numeri di telefono come se fossero note, tamburella sul tavolo come se ripassasse diteggiature e si emoziona spesso quando ci racconta del suo rapporto indissolubile con la musica, due estati dopo quel primo incontro, all’Hofgarten del Caffè Tambosi. La serata è estremamente - e piacevolmente, per due che vengono dal sud – calda, ma, da gente di mare che mare più non ha, entrambi sappiamo che cielo livido e afa e vento improvviso sono forieri di buriana-Gewitter, ma entrambi decidiamo di goderci il privilegio non scontato di poter stare all’aperto a Monaco finché non inizia a piovere.

INTERVenti (IV): Fabio, domanda di rito: a quando risale l’incontro con il pianoforte? Fabio Romano (F.R.): Avevo quattro anni quando mi fu regalato, come ai 3/4 dei bambini e adolescenti italiani negli anni Settanta, un organo Bontempi che cominciai a strimpellare con un effetto un po’ meno cacofonico rispetto a quello emesso dai restanti 2/4 dei bambini e adolescenti italiani…

IV: Chi se n’è accorto?
F.R.: Mio padre, ingegnere elettrotecnico, che aveva studiato qualche anno pianoforte: fu lui a farmi ascoltare le Ouvertures di Rossini, che io chiamavo all’epoca “lisco azzurro” e “lisco rosso”, e che riproducevo a orecchio. Al Conservatorio della mia città, Palermo, sono stato in seguito allievo di Antonio Allegra e di Gaetano Cellizza. Quest’ultimo soprattutto è stato molto importante nella mia carriera, mi ha dato molti consigli che io all’epoca - avevo 15 anni - per spirito di contraddizione non volevo ascoltare e di cui ho capito il valore solo molti anni dopo.

IV: Per esempio?
F.R.: Per esempio l’importanza di suonare con i cantanti. Io avevo nei confronti di Cellizza un forte sentimento di ribellione: lui si sentiva, ed era, erede della tradizione pianistica romantica e mi faceva suonare soprattutto Chopin, Debussy, mentre mi era preclusa la Neue Wiener Schule, che era diventata in qualche modo la mia passione segreta: avevo fatto della cacofonìa un altare e di Schoenberg la mia droga. E quando lui mi spingeva a suonare con i cantanti - affermando che solo così si riesce a “cantare” con il pianoforte, uno strumento che cantare non potrebbe – non gli credevo; solo molti anni dopo, quando per motivi economici ho fatto anche questo, mi sono reso conto che aveva perfettamente ragione.

IV: “Cantare” con il pianoforte, cosa vuol dire esattamente?
F.R.: Vedi, il pianoforte, come la voce umana, ha diversi registri, ed esattamente come nel canto è difficile renderne uniforme il timbro, ma accompagnando i cantanti ci si riesce…

IV: …raggiungendo ciò che nel 1619 Keplero aveva teorizzato nel suo Harmonices Mundi, ossia che l’armonizzazione di una voce con uno strumento non è solo una questione tecnica, ma un atto di comunione tra le forze dell’universo…
F.R.: …sì, proprio così, una preparazione tecnica solida è naturalmente alla base, ma nella musica ci sono così tante componenti. Quando Horowitz, suonò, a soli 11 anni, per Alexander Scrjabin, questi gli augurò di diventare prima di tutto un pianista colto. Ed è anche quello che mi ha trasmesso il mio maestro di composizione a Palermo, Eliodoro Sollima, che, allievo di Benedetti Michelangeli, non ha mai voluto piegarsi a compromessi con la tendenza dilettantistica prevalente in Italia a partire dagli anni Sessanta ed è sempre rimasto un compositore di rango. La comprensione e quindi lo studio di quello che si suona è conditio sine qua non per suonare bene e per trasmettere l’opera ai propri ascoltatori.

IV: Hai avuto il privilegio di studiare con Eliodoro Collima.Eppure poi ti sei concentrato di più sull’attività d’interprete che sulla composizione. Come mai?
F.R.: Perché la composizione non l’ho esercitata abbastanza in passato. Avevo iniziato presto, realizzando la musica di scena per le Nuvole di Aristofane al Teatro Greco di Siracusa, una cosa piccola, organizzata dalle scuole, che fu però un gran successo. In seguito però non l’ho più coltivata. Ora scrivo solo le cadenze dei concerti per pianoforte e orchestra, ma devo dire che fare l’interprete mi piace molto, mi dà la sensazione di cavalcare l’onda, dove l’onda è il pezzo che, sebbene esista anche senza di te, tu devi assecondare nel modo che più ti è consono: anche indicazioni come “piano” o “adagio ma non troppo” non sono rigide, possono essere interpretate a piacimento.

IV: Cavalcare l’onda è un’immagine sportiva, quanto è coinvolto il corpo nell’atto del suonare il pianoforte? A vedere i pianisti si hanno delle sensazioni molto differenti. Ci sono quelli più distaccati, ma anche quelli dove la fisicità è estrema, penso ai gemiti del Paris Concert di Keith Jarrett…
F.R.: Ma sai, ogni strumento richiede una grande partecipazione del corpo. Addirittura c’era chi diceva che dopo una grande prestazione musicale devono far male le ginocchia e Pete Sadlow 13 anni fa ha detto che più corpo si utilizza e più ricco sarà il timbro del suono, anche questo mi dicevano i miei primi insegnanti e anche a questo non credevo. Per me la sensazione è che dalle dita tutto lo sforzo si propaghi alla schiena. Questa coesistenza di più livelli è una delle cose più belle della musica: a volte hai la sensazione di praticare un Hochleistungsport, altre di fare arte concettuale come quando suoni le Sonate e Interludi per pianoforte preparato di John Cage (con oggetti sulle corde che distorcono il suono dello strumento, ndr.): in questo tipo di concerti c’è l’interazione massima con il pubblico, dove ogni rumore diventa parte integrante del brano musicale e tu ti chiedi: “Sono io che faccio il concerto o è il pubblico?”.

IV: Dal 2004 sei titolare di una cattedra di pianoforte alla Hochschule für Musik und Theater di Monaco, ma l’attività d’insegnante aveva avuto un prologo: eri giovanissimo, quando nel 1986 hai iniziato ad insegnare pianoforte complementare al Conservatorio di Palermo. Come ha influito sul tuo sviluppo musicale?
F.R.: Sicuramente si è trattato di una grande opportunità: avevo 19 anni e mi ci sono buttato con l’irruenza tipica di quell’età e con la sensazione e l’orgoglio di trovare la mia strada – magari sbagliata, come si è dimostrato in seguito – da solo.

IV: Perché sbagliata?
F.R.: Perché nel 1992 realizzai che avevo voglia di “ristudiare” il pianoforte - sei anni senza insegnante a quell’età sono troppi – e che avevo voglia di ristudiarlo all’estero. Dove estero voleva dire un paese dove si parlasse il tedesco, lingua che conoscevo fin da bambino dai Lieder di Schubert e Mahler e che mi ha sempre affascinato anche per un motivo visivo, grafico, così diverso dall’italiano. Con tutte queste maiuscole nel mezzo di una frase e queste lettere e segni sconosciuti.

IV: Non mi dirai che, da musicista, sei venuto a Monaco per un motivo “ottico”?
F.R.: Ovviamente no, il tedesco era anche lo scrigno che conteneva i segreti della cultura mitteleuropea, punto di riferimento irrinunciabile per un pianista, quindi la meta era Austria o Germania, entrambi paesi dove le scuole di musica sono di altissimo livello. Monaco un po’ per caso, perché avevo un contatto, un po’ perché la locale Hochschule dà la possibilità di suonare su pianoforti di ottima qualità. La sensazione per i primi anni è quella però di non aver vissuto a Monaco, ma nel microcosmo della Hochschule: mi sono chiuso in una sorta di ritiro in convento per compensare gli anni di Palermo.

(2006-3 pag 4)

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