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Categoria: lettres italiennes
Pubblicato Domenica, 03 Agosto 2014 19:04

Il coraggio di Don Abbondio

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 5 agosto 2014
“Il coraggio, uno non se lo può dare” balbetta don Abbondio nel 25° capitolo dei Promessi Sposi al cardinale Federigo Borromeo che lo incalza con i suoi rimproveri per non avere il parroco celebrato le nozze di Renzo e Lucia ed essersi fatto intimidire dai bravi inviatigli da don Rodrigo.

La frase è diventata celebre al pari del personaggio, il quale è assurto a simbolo di quella mediocrità capace di banalizzare anche una missione (quale dovrebbe essere il sacerdozio) vedendone solo gli aspetto rassicuranti: la canonica, i pasti assicurati, l'intangibilità della propria persona. Quando quest'ultima sembra essere minacciata, il parroco dimentica i suoi doveri e china il capo alla prepotenza di un signorotto locale, pronunciando l'altra frase che al pari della prima ne evidenzia il temperamento codardo: “Disposto... disposto sempre all'obbedienza”.

E tuttavia don Abbondio ha ragione: il coraggio uno non se lo può dare, così come non si può dare nessun'altra virtù che non possegga già. Può averla accantonata, ma se il suo animo ne è in possesso, non tarderà a riscoprirla e ad esibirla. Ma mai, se non per qualche curioso concorso di circostanze, un vigliacco diventerà eroe.

La codardia può diventare a volte un alibi alla propria pigrizia. Perché il coraggio può scatenare una  catena di effetti tali da travolgere anche la buona volontà di chi il coraggio lo possiede, ma non al punto tale da accettarne tutte le conseguenze; non capendo così che il male, che ha trovato spazio grazie alla mancanza d'animo, rintraccerà altri interstizi in cui insinuarsi, altri terreni in cui radicarsi, altri territori in cui prosperare. È già successo, e succederà ancora, non solo in situazioni personali, ma in ambiti collettivi, sociali, politici.

L'incongrua amnistia che Togliatti, allora ministro della giustizia, concesse ai fascisti nel 1946, se pure motivata da intenti pacificatori e da un nobile desiderio di riconciliazione nazionale, servì, nei modi in cui si svolse, a banalizzare il fascismo, facendone un episodio della storia d'Italia e non, come aveva ben capito Piero Gobetti già a un mese dalla marcia su Roma, l'autobiografia di una nazione. Quel facile perdonismo, forse addirittura opportunista, sembrò echeggiare i versi di una canzone di gran successo proprio in quel dopoguerra: “chi ha avuto, ha avuto, chi ha dato, ha dato, scurdammoce 'o passato”. E invece proprio quel passato ce lo ritrovammo davanti già quindici anni dopo a Genova, e ancora negli anni '70 con le bombe nelle banche, nelle piazze e sui treni. E lo vediamo ancora oggi negli squallidi empori in cui si vendono i simboli di quell'infelice ventennio.

Quel coacervo di umori reazionari, di pulsioni golpiste, di muti rancori contro la cultura e contro tutto ciò che promette emancipazione e liberazione, quel brodo di insofferenza e di servilismo che è la destra italiana non ha mai fatto, nel corso della sua storia, i conti con i suoi errori. Autoritaria in epoca liberale, clericale e fascista durante il Ventennio, dorotea o andreottiana nel quarantennio democristiano, ha avuto l'occasione, a partire dal 1994, di dismettere quella sobrietà a cui lo Scudo Crociato l'aveva in qualche modo costretta, per tuffarsi in quella piena volgarità che è in fondo la sua vera sostanza. Il gusto incerto ma contenuto si fece così pacchianeria, il linguaggio turpiloquio, il benessere esibizione di ricchezza. Un parvenu brianzolo di nessuna cultura ma di infinita liquidità divenne non solo il suo leader, ma il suo stesso modello di vita. E il consenso non venne meno quando si scoprì che quell'individuo non solo frodava alla grande il fisco, ma che trascorreva il suo tempo libero in compagnia di altri vecchioni come lui, assistendo alle scostumate esibizioni di un esercito di avvenenti ragazze disposte a tutto, fra le quali una minorenne.

La recente sentenza che lo ha assolto da due reati è ancora una volta una prova di quella mancanza di coraggio di cui, al pari di don Abbondio, soffre la società italiana. Perché se qualcuno può credere che il signor B. reputasse maggiorenne la ragazza e perfino che la ritenesse nipote di Mubarak, rimane il fatto che la telefonata nella quale, profittando della sua posizione istituzionale, spinse un funzionario di polizia a consegnarla alla tenutaria del suo harem privato, si svolse, ed è dunque innegabile che in tal modo abbia abusato della propria autorità. Ma, appunto, come diceva don Abbondio, il coraggio o c'è o non c'è; e se non c'è, uno non se lo può dare.

Torna in mente quell'altro episodio dei Promessi Sposi, quello dell'assalto ai forni, quando il gran cancelliere Ferrer, viene a salvare l'incolpevole vicario assediato in casa sua. Dopo aver calmato la folla presentando “un viso tutto umile, tutto ridente, tutto amoroso”, si allontana in carrozza ripetendo al cocchiere Pedro, adelante con juicio.

Ecco, “avanti, ma con prudenza” questo è il motto che dovremmo incidere sotto lo Stellone.

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