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Categoria: lettres italiennes
Pubblicato Venerdì, 28 Marzo 2014 08:52

Sgarbato di professione

Lettres italiennes

Corrado Conforti

Monaco, 27 marzo 2014.
Avevo sei o sette anni quando, in una piazza poco lontano dalla casa dove allora abitavo, assistetti a una scenata fra due donne. Capii poco e vidi ancora di meno, dal momento che la folla, che presto si assembrò attorno alle due litiganti, mi tolse ogni visuale. Seppi dopo quello che era successo, quando mia madre, che mi teneva per mano, rientrando a casa raccontò il fatto a mia nonna. Litigavano le due a causa di un uomo. La moglie aveva aggredito l'amante e, così raccontava mia madre, le aveva gridato “Tu devi lasciare in pace mio marito!”. Al che l'altra aveva replicato “Sei tu che devi lasciarlo. Non sei degna di lui!”. Io in strada avevo percepito solo delle grida confuse; ricordo però perfettamente che un signore, allontanandosi, quando l'assembramento si sciolse, scuotendo la testa commentò in romanesco “Ma 'ste due nun se vergognano pe' gnente?”.

Erano altri tempi. Il boom economico era appena iniziato, ma i comportamenti e i valori erano ancora quelli dell'Italia borghese e piccolo borghese, quella per la quale il decoro e la sobrietà erano limiti che non dovevano mai essere superati. Un'italietta ipocrita e mortificante, intendiamoci e che certo non avrei rimpianto quando, negli anni '70, iniziai a vederla vacillare. Del resto come se ne poteva avere nostalgia? Era l'Italia del delitto d'onore e del reato di adulterio, quello per il quale Giulia Occhini, amante di Fausto Coppi, dovette scontare nel 1954 un mese di carcere. Era l'Italia che l'anno prima con ben 82 tagli aveva censurato un innocente film di Mario Monicelli “Totò e Carolina”, solo perché il grande De Curtis interpretava la parte di un celerino. Era il paese in cui nel 1965 la coraggiosa Franca Viola veniva additata come “svergognata” perché aveva rifiutato di sposare il suo violentatore. Era la nazione nella quale l'anno seguente alcuni studenti del liceo Parini di Milano vennero processati (e per fortuna poi assolti), perché sul loro giornale “La zanzara” avevano pubblicato un'inchiesta interna all'istituto avente come oggetto la sessualità dei giovani.

Quel paese ipocrita e bacchettone scomparve lentamente. Lo sconfisse il crescente benessere e le conseguenze che questo comportava: la diffusa scolarizzazione, il lavoro femminile, la progressiva laicizzazione della società. Ovviamente cambiò anche il linguaggio: si fece meno paludato, si arricchì di nuove locuzioni; si aprì soprattutto ai codici gergali di alto, ma soprattutto di basso livello. Parve che quanto più si parlava come “il popolo” (termine questo in crisi già in quegli anni), tanto più si appariva democratici, emancipati, progressisti. Era questo in parte un equivoco e presto se ne sarebbero avvertite le conseguenze, perché se la lingua serve la comunicazione, non è rendendola plebea che la seconda se ne avvantaggia. Avviene invece il contrario. Dal momento che il linguaggio triviale accompagna la rissa, impiegandolo, il confronto si trasforma automaticamente in baruffa, perché il turpiloquio si usa solo per zittire l'avversario non per disarmarne le argomentazioni. Abbassando il livello del linguaggio si abbassa automaticamente il livello del discorso, e l'incolto, persa ogni soggezione nei confronti del colto, ne disprezza gli strumenti: lo studio, la preparazione, la riflessione. A quel punto non si dialoga più, si urla. Vince chi ha più polmoni e più diaframma e, a livello dialettico, chi conosce più slogan. Ne segue un generale impoverimento, perché con la lingua precipita la cultura. E quella generale del nostro paese non è mai stata così bassa come negli ultimi vent'anni.

Ed è proprio da un ventennio pieno e anzi, ridondante, che imperversa sui teleschermi un individuo a cui, va detto, non difettano né l'intelligenza né la cultura, ma che si conduce e si esprime, si sarebbe detto un tempo, come “un carrettiere”. Un esperto in materia saprebbe certamente diagnosticargli un disturbo dell'io, una forma patologica di narcisismo. Guai a contraddirlo infatti: esplode in sfoghi di rabbia cieca, nel corso dei quali ricorre al vocabolario di un ultrà, dovendo poi peraltro spesso risponderne caro prezzo in sede legale. Quello che però non si capisce è perché un individuo che intende il contraddittorio soltanto come atto di sopraffazione, sia costantemente invitato in televisione. La formula delle sue performance è ormai nota, non fa più sensazione, risulta soltanto irritante. Il tutto è  penoso: il nostro attempato e sgarbato (guarda caso il suo cognome echeggia il corrispondente sostantivo plurale dell'appena nominato aggettivo) opinionista somiglia a quei comici di altri tempi che, incapaci di rinnovare il loro repertorio, lo ripetevano fino allo sfinimento in sale di avanspettacolo sempre più vuote. Al loro apparire (e Fellini ce lo ha raccontato nel suo film “Roma”) alcuni fischiavano, altri si allontanavano, altri si mettevano a leggere il giornale. Altri, rassegnati, si limitavano a scuotere la testa e, come quel passante del mio ricordo d'infanzia, dicevano con un filo di amarezza nella voce “Ma questo nun se vergogna pe' gnente?”

 

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