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Dalla giacca in tweed alla direzione dell’Opera Australia

Intervista al maestro d’opera lirica internazionale John Wregg

John Wregg ist einer der angesehensten Regisseure der australischen lyrischen Oper. Er ist in Melbourne geboren und aufgewachsen und hatte in den Jahre ‘60 – ‘70 die Moeglichkeit nach Europa zu reisen um dort seinen Kulturschatz zu erweitern, sowie in engen Kontakt mit den groessten Lehrern des Kinos und der internazionalen lyrischen Oper zu treten. John Wregg begann seine Karriere als Uebersetzer für das Drehbuch “Spaghetti Western”, worauf er dann interner fixer Regisseur der “Opera Australia” fuer ganze 15 Jahre wurde. Zur Zeit lebt er in Sydney, wo er weiter als erfolgreicher Regisseur arbeitet und immer wieder neuer Stile und neuer Lektorate der klassichen und zeitlichen lyrischen Oper verwendet.

Sasha Deiana e Cristina Spaccavento

John Wregg è uno dei più stimati registi di opera lirica australiana. Nato e cresciuto a Melbourne, ha avuto la possibilità di viaggiare in Europa tra gli anni ’60-’70, spostamenti che gli hanno permesso di arricchire il proprio bagaglio culturale e di entrare in stretto contatto con i più grandi maestri del cinema e dell’opera lirica internazionale. Iniziando come traduttore per le sceneggiature degli Spaghetti Western ha finito per diventare il regista interno fisso dell’Opera Australia per ben quindici anni.

 

Attualmente vive a Sydney dove continua a lavorare in qualità di regista, sperimentando stili sempre nuovi e riletture dell’opera lirica classica e contemporanea.

Sasha Deiana (SD): Come è iniziata la sua carriera artistica in Australia e come è avvenuta la transizione da promettente avvocato (vista la laurea in legge) a regista d'opera lirica tra i più noti e stimati d’Australia?

John Wregg (JW): La mia dedizione per il teatro è iniziata a Melbourne dove studiavo giurisprudenza. Nel giro di poco tempo mi resi conto che legge non era il mio campo, ma avevo tutte le intenzioni di laurearmi.

Nell’istituto universitario presso cui ero iscritto c’era una vita teatrale molto vivace, iniziai come attore e diventai professionista prima della fine degli studi, nel frattempo mi dilettavo a comporre personalmente alcuni pezzi. La compagnia di cui facevo parte si chiamava Young Elizabethan Players, portammo in scena Shakespeare per circa sei mesi.

Terminati gli studi spostai gradatamente la mia attenzione sulla figura del regista. Dopo alcuni anni mi trasferii nel West End (di Londra), Mecca per tutti i teatranti in quel periodo, a porgere i miei ossequi.


SD: Ha lavorato per diverse stagioni in Europa: come è stata la sua esperienza italiana?

JW: Dopo sei mesi a Londra fui ingaggiato per uno spettacolo a Parigi che per sfortuna saltò. Colsi l’occasione per fare un viaggio in Italia e subito percepii qualcosa di misterioso e affascinante, era quasi come se avessi vissuto lì durante una vita precedente. Dopo dieci giorni di permanenza avevo già ottenuto due contratti come attore prima e aiuto regista poi.

Così iniziò la mia avventura italiana. Diventai associate producer in alcuni film Spaghetti Western, per i quali scrissi la traduzione della sceneggiatura in inglese. Ero responsabile per il budget in 3 monete diverse, per gli orari dei programmi e per i finanziamenti, mi occupavo dello staff e dei trasporti necessari alla realizzazione del film. Successivamente lavorai per alcuni film americani a Roma e per alcuni film italiani che venivano presentati come americani o inglesi.


SD: Il suo iter lavorativo è stato arricchito anche dall’incontro con grandi attori e registi tra cui Fellini, Gian Maria Volonté ed altri nomi noti del cinema italiano: com’è avvenuto l'incontro e quali collaborazioni ha avuto con loro?

JW: Mentre lavoravo al film The Statue, scoprii che, nello studio adiacente al nostro, Fellini stava girando il film I Clown; mi ci infilai col costume da English Bobby che indossavo e mi sedetti ad osservare il Maestro al lavoro. Col passare del tempo Iniziammo a chiacchierare e fui invitato ad assistere al resto delle riprese.


SD: Che ricordo ha di questi artisti?

JW: Fellini era affascinante e illuminante, la sua immaginazione estetica era davvero sconvolgente. Era un visionario dello schermo ma ho il ricordo di una persona molto disorganizzata e poco efficiente. Si poteva lavorare una giornata intera senza riprendere nemmeno una sequenza e dover iniziare nuovamente da zero il giorno successivo. I suoi film erano famosi per i tanti scarti di pellicola accumulati durante le riprese.

In quel periodo recitai anche in qualità di giurato nel film Sacco e Vanzetti, dove ebbi la possibilità di ammirare le straordinarie competenze artistiche di Gian Maria Volonté. Altri artisti di quel film ricordati ancora oggi sono Cyril Cusak, Milo O’Shea ed il regista Montaldo, ma Volonté fu davvero travolgente. Durante le riprese mi fece emozionare in molte occasioni, fortunatamente non mentre mi riprendevano poiché, nel ruolo che interpretavo di crudele giurato, non potevo mostrare alcuna comprensione nei suoi riguardi.


SD: Indipendentemente dalle sue attuali adesioni politiche: non ha mai celato la propria simpatia per gli ambienti di centro-sinistra italiani attivi tra gli anni ‘60-‘70. Ci può raccontare qualche aneddoto a riguardo? Trovò un clima politico diverso rispetto a quello australiano?

JW: Durante il periodo dell’università a Melbourne ero un “socialista passivo”: per intenderci, indossavo la giacca in tweed ed ero un discreto bevitore di Claret, non avevo alcuna esperienza politica reale, ero semplicemente alla ricerca di uguaglianza per tutti e pace, credevo negli ideali di cui tanto si vociferava in quel periodo. Conoscevo alcuni esponenti del partito socialista venutosi a creare all’interno dell’Università, ma in realtà non si andava mai oltre la chiacchierata generica.

Sentivamo parlare spesso di Trotskismo e Maoismo descritti come focolai estremisti ma che difficilmente avrebbero potuto incontrare ed abbracciare gli ideali della true-blue Australia. Non credo di aver conosciuto nessuno durante quegli anni, in Australia, che si proclamasse comunista.


SD: Quando cambiò la situazione?

JW: Le cose cambiarono quando mi spostai a Roma: entrai in contatto con un gruppo di pittori che si autoproclamavano comunisti (attivi), tutti avevano avuto un’esperienza in Russia per motivi di studio, finanziati dal partito. Non erano né terroristi né soldati dell’Armata Rossa, semplicemente giovani con idee. Ero attratto dal loro stile di vita e dalle loro conversazioni, era davvero “romantico” frequentare dei pensatori così politicamente impegnati. Forse erano più sostenitori che veri attivisti, ma devo dire che furono in grado di aprirmi la mente sui meccanismi e le dinamiche della società di quel periodo.


SD: Lei è stato per oltre quindici anni il regista interno fisso dell’Opera Australia (la principale compagnia d’opera d’Australia), le va di raccontarci un po' di questo periodo?

JW: Dopo essere tornato in Australia, dove la cinematografia stava lentamente prendendo piede, capii presto che l’esperienza europea non mi era di grande aiuto, non era percepita o comunque capita dagli addetti ai lavori. Fui ben accolto, invece, nell’ambiente teatrale. Avevo sempre desiderato avvicinarmi all’opera come forma d’arte che, a mio avviso, ha un grande vantaggio grazie alla potenzialità emozionale che può suscitare attraverso la musica dal vivo.

Quando l’Opera Australia mi contattò, mi commissionò da subito sette produzioni durante l’arco dell’anno tra Sydney Opera House, Brisbane, Canberra, Melbourne e Adelaide: colsi l’opportunità al volo e rimasi con loro per quindici anni.


SD: Qual era il clima che si respirava all’Opera Australia quando Lei ne entrò a far parte?

JW: Negli anni ’80 si ebbe una grande crescita dell’opera in tutto il mondo (tranne che in Italia, rimasta bloccata alle glorie del passato). Dame Joan Sutherland, noto soprano australiano, cantò con regolarità da noi in quel periodo, questo fece diventare la compagnia molto conosciuta in tutto il mondo dell’opera, forse un punto di riferimento per molti cantanti lirici di fama mondiale.

Vari artisti trovavano il connubio tra la baia australiana e il sole uno scenario irresistibile per le proprie performance canore, tra questi Pavarotti, Marilyn Horne, Leonie Riesenek, Kiri Te Kanawa.

Fu il periodo d’oro per la compagnia ed una educazione musicale meravigliosa per un direttore teatrale. Durante quel periodo diedi vita anche ad una compagnia chiamata Sydney Metropolitan Opera che produsse pezzi nuovi prevalentemente finanziati da noi.


SD: Nota delle diverse aspettative tra il pubblico australiano e quello europeo?

JW: Il pubblico australiano è più cortese e generoso di quello europeo, che è sicuramente più critico. In Australia i fischi si sentono raramente, anche quando in realtà sarebbero meritati. In Europa i segni di disapprovazione sono molto comuni, in Germania obbligatori!

Il pubblico europeo ha idee più chiare ed è di conseguenza più esigente, molto meno tollerante del pubblico australiano che dimostra il proprio disappunto semplicemente con un applauso meno caloroso.


SD: Mentre il pubblico asiatico?

JW: Il pubblico asiatico può essere molto chiassoso all’interno del proprio contesto, mentre in un ambiente operistico o teatrale occidentale tende ad essere più contenuto e sobrio.


SD: Che differenze ci sono nel dirigere un film ed un’opera lirica? Quali maggiori difficoltà nell’opera?

JW: Nell’opera il pubblico deve essere in grado di percepire le singole parti da cui essa è composta, mentre nel film è il regista stesso che decide dove si soffermerà l’attenzione dello spettatore. Il problema costante del regista d’opera è quello di spingere il protagonista nel trovare la verità della performance canora attraverso l’utilizzo della sua voce. Più esperienza ha l’attore più è facile per il regista dirigerlo, il protagonista solitamente sa cosa è in grado di fare e sa come rappresentarlo. In Australia, come in altri paesi, molti cantanti d’opera vengono allenati soprattutto nel campo del canto, mentre la recitazione e le tecniche di interpretazione vengono messe in secondo piano.


SD: Nel cinema invece?

JW: Il compito del regista cinematografico è principalmente quello di impostare le riprese per raggiungere gli effetti desiderati utilizzando il maggior numero possibile di trucchi con la telecamera, che in quest’era digitale sono praticamente illimitati. Molti registi si fidano dell’esperienza del cast, al punto tale da occuparsi principalmente della parte tecnica trascurando quella interpretativa.


SD: Mi corregga se sbaglio, le due “Primedonne” nell'opera lirica sono il regista e il direttore d'orchestra: si crea empatia tra queste due figure durante la realizzazione dello spettacolo?

JW: È vero, è importante che questi riescano ad andare d’accordo anche se spesso si ha più un rapporto di reciproca tolleranza che di cooperazione. Senza quest’accordo il progetto crolla. Il direttore d’orchestra è molto critico nei confronti del regista poiché capita sovente che quest’ultimo corrompa la parte musicale dell’opera per lasciare spazio alle proprie idee.

Spesso i registi, invece, vedono nel direttore d’orchestra una figura tirannica, conservatrice e meschina, poco propensa ad esplorare il lavoro proposto dalla regia e spinta solo dal desiderio di impressionare l’orchestra e i cantanti.

Solitamente l’opera controlla questo fenomeno facendo in modo che il regista domini la scena durante la fase dei provini ma, quando l’orchestra è presente, è il direttore musicale ad assumere le redini.


SD: Questa è la norma?

JW: Beh, dipende, avviene soprattutto nei contesti in cui il rapporto tra il regista e il direttore musicale è particolarmente conflittuale; in genere si punta al rispetto reciproco e alla condivisione delle opportunità per lo scopo comune che è la riuscita dello spettacolo. Questa è una situazione ideale e spiega perché molti registi e direttori musicali cerchino di cooperare senza intralciarsi.


SD: Lei è noto per aver portato in scena rappresentazioni sia classiche che moderno-sperimentali, come si è venuta a creare questa antitesi? Le piace provare cose nuove o è il pubblico stesso a chiedere una rilettura moderna dei classici?

JW: Il mio scopo principale, in qualità di regista, è quello di narrare la storia, spesso lavoro su testi scritti in una lingua che non corrisponde a quella parlata dal pubblico. Ci sono approcci alternativi e creativi che possono emozionare gli spettatori ma anche confonderli profondamente. Io sono un sostenitore dell’opera cantata e recitata nella lingua utilizzata dal pubblico presente in sala, questo, purtroppo, è molto inusuale e “fuori moda” oggigiorno.

Credo si debba costruire uno spettacolo in cui gli spettatori si possano immedesimare, altrimenti si rischia di avere solamente un pubblico che guarda un dramma datato in un’epoca assolutamente sconosciuta, in costume e accompagnato da una bella musica.


SD: Ci può fare qualche esempio tratto dalla sua carriera artistica?

JW: Certo, portai in scena Tosca di Puccini, ambientandola nella Roma del 1943, ebbi la possibilità di rappresentare Scarpia come un burattino della Gestapo.

In modo analogo ambientai La forza del destino di Giuseppe Verdi nelle trincee della Prima Guerra mondiale.

Queste sono situazioni più familiari per gli spettatori, esperienze che hanno vissuto in prima persona o di cui sono venuti a conoscenza attraverso i media o racconti personali: per questo sono più in grado di immedesimarsi rispetto ad una ambientazione ottocentesca.


SD: Quindi a cosa dà la priorità mentre sta preparando un’opera?

JW: La mia costante ricerca è per la verità in ogni spettacolo: verità, non realismo!

Lo spettacolo può essere anche molto stilizzato, ma più lo si rende stilizzato più deve essere convincente.

Gli ingredienti necessari per la riuscita del mio spettacolo sono: la storia, la bellezza del palcoscenico ed il pubblico che desidera essere travolto da nuove esperienze estetiche e visive.

C’è sempre una certa interpretazione intellettuale dell’opera che deve essere sottilmente celata affinché lo spettatore non si senta oppresso.


SD: Lei ha lavorato a Berlino tra il 1987 e il 1988, forse il periodo più significativo per questa città nel secondo dopoguerra. Come ha vissuto l’esperienza di giovane uomo e artista negli anni antecedenti al crollo della dittatura comunista?

JW: La Germania in quel periodo era molto attiva politicamente e la maggior parte delle produzioni teatrali aveva chiari riferimenti politici. La tensione sociale a Berlino era palpabile con mano. Tutte le persone con cui entrai in contatto in quel periodo avevano parenti o amici intrappolati e isolati dall’altra parte del muro. La Berlino ovest era provvista di ogni tipo di lusso, proprio per enfatizzare le differenze economiche tra le due diverse aree della città.

Il desiderio di cambiamento e rivincita era evidente.


SD: Spesso i paesi che stanno attraversando un difficile periodo storico, politico e di conseguenza sociale, dimostrano una particolare apertura nei confronti dell’arte, forse a causa della forte frustrazione sia individuale che collettiva vissuta in quel momento. Che atmosfera c’era in Germania, e in particolare a Berlino, durante gli anni della sua attività?

JW: La perdita delle due guerre mondiali era una fonte di vergogna profonda che influenzò la maggior parte dell’espressione artistica tedesca e berlinese.

Il fatto che le operette teatrali fossero escluse dal giudizio politico era probabilmente la ragione per cui diventarono così popolari. Le produzioni delle compagnie d’opera sia nell’est che nell’ovest di Berlino erano politicamente cariche di contenuti e solitamente evidenziavano problemi di carattere sociale, sessuale e storico.

A Berlino c’era un movimento artistico molto forte ed espressivo, quasi brutale, impegnato a favore della società.

Per tutte queste ragioni Berlino era una città molto stimolante intellettualmente ed ebbe una forte influenza sull’opera come sulle altre forme di espressione artistica.

Dopo essere entrato in contatto con molti di questi artisti che necessitavano di poche risorse per “produrre arte”, io mi sentivo in dovere di giustificare le spese per portare in scena i miei spettacoli (musicisti, costumi, luci, cantanti lirici, palcoscenico, direttore musicale).


SD: Quante compagnie d’opera c’erano a Berlino?

JW: C’erano molte compagnie che creavano concorrenza: 120 compagnie in tutta la Germania, 35 solo nella città di Berlino (in Australia c’era un’unica compagnia) e quindi l’originalità era indispensabile per pubblicizzarsi e incuriosire.


SD: Quindi cosa dovevate fare per distinguervi?

JW: Abbiamo dovuto portare in scena qualche produzione estrema che, in effetti, caratterizza la concezione delle produzioni tedesche anche al giorno d’oggi.

Era necessario viaggiare e spostarsi molto per entrare in contatto con opere bizzarre ed eccentriche.

Ci sono stati anche molti registi che sono riusciti a fare carriera proprio grazie alla loro capacità di sconvolgere lo spettatore, molti di questi sono ancora in attività.


SD: Un artista poliglotta, oltre che poliedrico, Lei, di madrelingua inglese, parla un ottimo italiano, si è adattato perfettamente alla cultura tedesca e successivamente a quella rumena.

Ora ha deciso di spingersi anche più in là: da alcuni mesi e', infatti, impegnato nella preparazione di uno spettacolo che si terrà in Cina: ci potrebbe dare qualche anticipazione?

JW: Si tratta di un’opera che andrà in scena a Pechino. E’stata commissionata dalla librettista australiana Linda Jaivin per il soprano australiano-cinese Shu Cheen Yu. Con Linda avevo già lavorato precedentemente. Sapevo che la sua visione del teatro era simile alla mia e che parlava un ottimo mandarino, in più è un’ottima conoscitrice della letteratura e cultura cinese. Abbiamo fatto domanda alla China National Opera Company che si è aggregata alla coproduzione. L’obiettivo è quello di creare un ibrido rappresentando un’opera tradizionale pechinese attraverso le tecniche di performance occidentali.


SD: Per quando è previsto lo spettacolo?

JW: Ci si aspetta di cominciare nella metà del 2010, s’inizierà col tour della Cina e poi ci si sposterà in occidente. Sarà rappresentato in un misto tra cinese e inglese e sarà un’interpretazione contemporanea della popolare storia cinese di Pan Jinlian. Tra qualche giorno partiremo per Pechino, è previsto un incontro con la compagnia, gli sponsor, i compositori e il ministro della cultura cinese.


SD: La emoziona l’idea di portare in scena un’opera di questo tipo?

JW: Assolutamente, questa innovazione interculturale ravviverà il mio sonnecchiante interesse per il comunismo.

Mi attrae molto il mondo dell’opera cinese così arcano ed esoterico. Dovremo seguire stili, tradizioni e pubblici molto diversi fra loro: dovrò fare affidamento su tutta la mia diplomazia e creatività. Tutti vogliamo lo stesso fine ma adottiamo sistemi diversi per raggiungerlo.

Questa è una sfida ed è la linfa vitale per un regista.

Sarà un successone, i migliori auguri.

2009-4 pg 26

 





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