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Categoria: Mito
Pubblicato Domenica, 15 Novembre 2015 13:39

L'esercito romano

(parte seconda)

Laura Benatti

Como, 14 novembre 2015.
La severità dei generali (in lat. duces/imperatores) nei confronti dei loro eserciti non provocò, come potremmo aspettarci e a parte alcune eccezioni, malcontento tra i soldati, bensì un legame di stima e di fiducia incondizionate tra le truppe stesse ed il comandante. Questo in effetti, oltre ad esigere disciplina, ordine e obbedienza, sapeva essere anche molto generoso. I bottini di guerra (in lat. spolia) che avesse ottenuto nel corso delle campagne militari nelle varie province dell'Impero (oro, pietre preziose, oggetti di lusso, schiavi ecc...), sarebbero stati condivisi con i suoi uomini, i quali, a tal punto, sempre più soddisfatti, gli avrebbero assicurato, una volta tornati in patria, tutta la propaganda e l'appoggio per ottenere i voti necessari per la sua carriera politica.

Si trattava, infatti, di personaggi per lo più appartenenti ad una gens (stirpe) aristocratica: pensiamo ad es. a Giulio Cesare che vantava una discendenza dalla dea Venere. Secondo il mito, Venere era stata madre di Enea, padre di Iulo/Ascanio, progenitrice della gens Iulia alla quale Giulio Cesare apparteneva.

Tuttavia ci furono anche altri generali che ottennero fama politica grazie all'appoggio delle truppe che avevano legato a sé con donativi: pensiamo a Caio Mario che ricoprì il consolato più volte, pur essendo un homo novus, cioè - diremmo oggi - un parvenu, pensiamo a Silla che ottenne addirittura il consolato a vita, anzichè per un solo anno.

Quando con Mario, intorno al 100 a.C., l'esercito romano progredì nella sua composizione, cioè quando ne fecero parte non più solo i ricchi proprietari terrieri ma tutti gli uomini di ogni classe sociale, venne introdotta una ancora più attenta selezione al momento dell'arruolamento: per essere legionari, cioè per potere viaggiare all'estero, avere un buon salario e gli 'extra' del bottino di guerra, per ritornare in patria come 'eroi', bisognava avere non solo un'altezza discreta (l'altezza media di un vir romanus, uomo romano, dell'epoca era di circa m.1,55/1,60), ma una propensione innata alla fatica fisica, alla sopportazione della fame, del caldo, del freddo, del sonno e, soprattutto, un carattere non ribelle ma socievole, capace di adattarsi con quello dei commilitoni e di accettare gli ordini del comandante.

Essere un legionario non era per nulla facile, ma avrebbe portato gloria non solo al personaggio stesso, ma anche a tutta la sua stirpe futura.

 

                                                                                        

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